'L'amore, un'estate' è all'altezza dei titoli migliori di William Trevor. Un purissimo mélo che ricorda le atmosfere di un Douglas Sirk d'annata

Da molto tempo sono un affezionato fan di William Trevor, scrittore irlandese trapiantato in Inghilterra. Trevor viene considerato perlopiù un maestro nella misura breve del racconto - considerazione che condivido - ma credo che anche come romanziere sia un autore di primissimo ordine. Ricorderò solo due fra i suoi molti titoli passati: 'Il viaggio di Felicia' e 'Giochi da ragazzi', entrambi pubblicati da Guanda come questo nuovo romanzo 'L'amore, un'estate' (traduzione di Laura Pignatti, pp. 217, E 15).

Che cosa di più mi affascini nella scrittura di Trevor è presto detto: la sua capacità di raccontare la superficie delle cose e delle persone, riuscendone a poco a poco a scoprire il cuore nascosto e incandescente. È come se l'autore possedesse naturalmente il dono del romanzesco: parte da pochi elementi, da qualche personaggio all'apparenza niente di speciale e un po' alla volta riesce a costruire un mondo perfettamente autonomo, in cui il lettore si immerge come nell'acqua del mare per una magnifica, rigenerante nuotata.

'L'amore, un'estate' non è da meno dei suoi titoli migliori. Siamo negli anni Cinquanta, in una cittadina della provincia irlandese, per la precisione a Rathmoye. Fra il giovane Florian Kilderry e la già sposata Ellie nasce, sotto gli occhi inquisitori di vicini e conoscenti, una passione che sarebbe meglio cancellare, o almeno reprimere. Il racconto è un purissimo mélo che ricorda le atmosfere gelate di un Douglas Sirk d'annata. La tragedia esplode lentamente, come un incubo a cui è impossibile sfuggire, e il lettore ne segue l'evolversi quasi nei panni del testimone oculare.