Abbiamo passato due giorni nel carcere di Volterra per vedere recitare Aniello Arena, l'attore detenuto rivelazione di "Reality". Che spiega: sono libero anche dietro le sbarre
Aniello Arena è in fondo alla salita che porta al carcere, nella Fortezza di Volterra. È in semilibertà e tutte le mattine, da lunedì a venerdì, lavora negli uffici della compagnia di Armando Punzo che da 25 anni fa teatro in prigione. La sede è proprio davanti all'ingresso della prigione, a un centinaio di metri dalle prime sbarre. È ora di andare, perché il protagonista del film "Reality", diventato subito un'acclamata star internazionale, deve rientrare per il fine settimana. Alla domanda quanti Aniello ci siano in giro, per fare tutte quelle interviste che ha rilasciato risponde con estrema precisione: «Da luglio ne ho fatte 250». Sorride a aggiunge: «A un certo punto non sapevo più cosa dire perché le domande erano tutte sull'esperienza nel film di Garrone. Mi sembrava di essere come Totò nella gag dove si sdoppia e c'è lui che accusa quell'altro, il principe De Curtis, di sfruttamento: campa sulle mie spalle di attore». Arena è una specie di Dr. Jekyll e Mr. Hyde in salsa partenopea. Ma questa non è la 251esima intervista, è invece la cronaca di due giorni dietro le sbarre, accanto all'attore.
Dopo i primi cancelli, dunque, e il metal detector una guardia ci fa passare da due porte automatiche e ci accompagna nel teatro, una specie di stanza stretta e lunga, dove ogni giorno gli attori-detenuti lavorano con il regista Punzo, un napoletano che da giovane approdò qui per fare un seminario ed è rimasto a Volterra, facendo della galera la sua seconda casa. È venerdì pomeriggio. Punzo con alcuni attori sta guardando i video dove loro leggono poesie di Pasolini, Sereni, Rosselli. Si riguardano per controllare se hanno recitato bene, e discutono insieme facendosi le bucce l'un l'altro. Appena entra Aniello si voltano tutti a salutare e Gianluca Matera (un detenuto attore) comincia a preparare il caffè. Qui il caffè, insieme alle sigarette, è una specie di rito collettivo che unisce tutti. Gianluca lo prepara con la moka grande e monta la schiuma con lo zucchero. I mozziconi di sigaretta sono in terra, specie accanto alle porte di ferro che separano con le sbarre le zone di questa sezione. «Sono arrivato al carcere di Volterra nel 1999. Prima ero a Viterbo, ma sono stato anche a Bologna e a Campobasso. Qui nella Fortezza ho fatto pure l'isolamento diurno per questioni che non voglio dire (Arena sconta l'ergastolo per vicende legate alla camorra, ndr.). Proprio nel periodo dell'isolamento ho smesso di fumare. Era il 15 dicembre 1999». Sembra impossibile che un fumatore possa dare un taglio alle sigarette qua dentro, dove si può fumare ovunque, nelle celle, nei corridoi, in palestra. E dove una sigaretta è spesso l'unico momento per scaricare la tensione di un tempo che potrebbe non passare mai. «È stata solo forza di volontà», spiega lui.
Aniello si ricorda le date. Quando si parla degli spettacoli della Compagnia, gli altri detenuti chiedono a lui l'anno preciso o il mese in cui hanno fatto una recita fuori. E lui gliela dice, sicuro. Ha memoria e si ricorda i dettagli: per un attore è importante. Intanto si prosegue a vedere la serie delle letture di poesie sul monitor del computer e Massimo Terracciano, che ha recitato un testo di Pasolini, è euforico: si vuole rivedere ancora perché anche lui scrive poesie. «Per me vedermi sullo schermo è strano», gli dice Aniello e comincia a raccontare cosa ha fatto l'ultima volta a Roma: «Ero in permesso Uepe, cioè per visitare i parenti. In autobus e in metro mi guardavano. Giravano la faccia e strizzavano gli occhi. Mi riconoscevano. Sono uscito dal bagno di un bar e un ragazzo mi ha fatto: "‘Mazza oh, Aniè, ma tu sei veramente Luciano del film? Oddio, che robba. Ma te posso toccà. A Lucianooo"... Mi saltellava davanti e io gli dicevo: sì, ma stai calmo. Sono stato malissimo».
In questa compagnia di attori-detenuti nessuno dice a un altro che sta sbagliando. Semplicemente si raccontano storie. Sono come apologhi di private esperienze. E chi vuole capire capisce. Aniello tra queste quattro mura è autorevole, non perché ha fatto un film che è andato al festival di Cannes, ma perché da più di dieci anni dedica tutta la sua esistenza a questo teatro in carcere che è una missione, una specie di chiamata civile che Punzo ha reso possibile. I detenuti con la formazione attoriale e la condivisione della cultura, nutrono giorno dopo giorno una speranza, quella di capire che dietro un'azione, un gesto, non finisce la storia di un uomo. Un attore dell'accademia lo deve studiare; loro lo sanno da sempre, forse da quando hanno commesso un crimine. Intanto là fuori c'è interesse per gli attori-detenuti della Fortezza. Qua dentro vengono in tanti a fare casting. Ultimamente sono arrivati quelli di Cattleya. Ai produttori di cinema o alle agenzie interessa vedere questi attori per cercare nuovi volti per il grande schermo. Aniello dice che qui ce ne sono tanti di interpreti bravi come lui: «Se a qualcuno serve un personaggio emiliano venga a prendere Massimiliano Mazzoni: è fantastico. Oppure un altro napoletano come me, Giovanni Lancella». Ormai è sera e Punzo tira fuori una busta di crackers. Qualcuno è uscito di nuovo a fumare, altri sono rientrati in cella per preparare la cena. È tempo di cambiare scena: dal teatro alla branda.
La mattina del sabato Aniello si arrabbia quando gli si chiede di ripetere alcune cose del giorno prima: «Abbiamo detto belle cose. E le cose quando avvengono, avvengono. C'è una magia che potrebbe non tornare». Poi, scoperto un brufolo sulla fronte implora di essere truccato. Infine, inizia a saltellare, muovendosi come una marionetta e dice: «Qualche anno fa, facevo Lucignolo e sudavo come una capra con indosso un cappotto di lana doppia sotto il sole di luglio. Ero il solo che non interpretava un burattino. Così voleva Armando. Ero l'unico personaggio di una vita vera. E anche adesso dico pane al pane e vino al vino. Non faccio la marionetta come mi è toccato in certe tv. Ecco perché dico che la magia di ieri non può tornare».
La storia del film "Reality" è cominciata a ottobre 2010: Garrone cercò Punzo perché voleva Aniello nel film. Qualche giorno dopo Natale 2010 Armando disse ad Aniello che dovevano andare a Roma, agli studios in via Tiburtina, senza spiegare il motivo. Arrivati là Garrone cominciò a raccontare "Reality" e Aniello si chiedeva: ma perché mi racconta questo film? Pensava volesse affidargli una particina. «Armando non mi diceva niente perché prima dovevano capire se potevo girare un film fuori dal carcere. Tre mesi avanti e indietro tra il set e il carcere». C'erano le questioni burocratiche. La soluzione? Far dormire Arena in un carcere di Roma.
«Io ho la terza media e mi sono sempre piaciute storia e scienze, ma qui volevo provare il teatro perché nelle altre carceri avevo sentito parlare della Compagnia della Fortezza ed ero curioso. I primi quattro anni era impegnativo perché facevo il sarto, poi dal 2004 il magazziniere. Non potevo seguire la scuola di geometri che abbiamo in carcere, così decisi di dedicarmi solo al teatro. Ho avuto ragione perché dal 2011 faccio un lavoro esterno in semilibertà, faccio l'attore. Ma la prima volta che dovevo andare in scena era qui nel cattone, cioè il corridoio, noi lo chiamiamo cattone. Quando toccava a me mi sono nascosto sotto lo stand dei vestiti. Sentivo che i tecnici mi chiamavano, ma io niente, stavo là sotto, vestito da donna. Non volevo uscire. Mi trovò l'aiuto regista, ma io niente, immobile. Allora Armando mi trascinò a forza nel cattone. Facevo l'avaro vestito da donna, un monologo tutto mio. Cominciai e non mi fermavo più, inventavo mentre recitavo e ballavo. E la gente si affollava intorno a me. Le spettatrici, alla fine, mi dissero che ero sensuale. Non avrei mai pensato di fare queste cose. Se nella mia prima vita mi facevano allusioni femminili gli menavo o gli sputavo».
È sabato pomeriggio ormai. Siamo nel cortile accanto al lungo filare di sbarre che divide lo spazio esterno. È il posto dove d'estate gli attori-detenuti allestiscono gli spettacoli e aspettano che il pubblico entri in carcere per mettere in scena i loro lavori. Durante tutto l'anno, invece, ci giocano a pallone, come adesso. «Mi piacerebbe ancora giocare, ma non posso. Sono tifoso del Napoli. Da piccolo si giocava a Barra, nel mio quartiere, nei palazzi, per strada. Quando sono entrato in galera giocavo a calcetto, ero velocissimo e avevo un bel tiro. Ma il 27 agosto 1994 nel carcere di Campobasso, durante una partita, mi sono rotto i legamenti crociati anteriori».
Sono due giorni che Aniello parla e discute. A chi piace il teatro sembra non ci sia altro luogo dove stare. Da questo scorcio di vita che si intravede nella Fortezza pare che il resto del mondo sia chiuso là fuori. Lui dice: «Sto vivendo un momento magico. È iniziato nel 2010 e da lì è andato tutto bene. Ho conosciuto una donna e mi sono innamorato, e questo amore mi ha fatto stare bene. Da allora è andato tutto in discesa». Riflette: «Ho sentito dire che Stevenson, quello del "Dr. Jekyll e Mr. Hyde" è morto a 44 anni. Io ho 44 anni. E sono rinato».