'Credo che il poter pubblicare da soli i propri libri permetterà, magari una volta ogni dieci anni, di scoprire nuovi autori che gli editori non hanno capito'. Parla lo scrittore di best seller che, a 63 anni, si è anche innamorato di Twitter
C'era una volta il "lettore implicito", diverso da quello in carne e ossa e figlio della fantasia dello scrittore. Era il tempo in cui autore e lettore erano e restavano distanti e ogni autore, carta e penna alla mano, raccontava storie rivolgendosi ad un pubblico ideale.
I tempi sono cambiati: nell'era dei siti di social networking, delle amicizie coltivate su Facebook, degli ebook e dei messaggi brevi scambiati su Twitter, il rapporto tra autore e lettore si trasforma in una relazione diretta, immediata, consumata in tempo reale e sotto gli occhi di tutti. «Twitter è per me il più importante contatto diretto con i lettori, o almeno con i diecimila tra loro che mi seguono sul social network - spiega il romanziere di fama mondiale
Ken Follet - leggo i loro messaggi e sono affascinato dalla velocità impressionante con la quale avviene la comunicazione. E se venti persone rispondono a un mio tweet, riescono persino a distogliermi per qualche minuto dallo scrivere». Detto da uno che lavora «dieci ore al giorno per sei giorni alla settimana», non è cosa da poco.
Incontrato a Londra nei giorni in cui arriva anche sugli scaffali italiani "L'inverno del mondo", seconda parte della "The century trilogy", Follet condivide con noi qualche riflessione su come l'avvento della rete abbia cambiato l'editoria, scossa nelle fondamenta dall'avvento dei libri digitali, dell'iPad e del self-publishing.
Twitter va bene per parlare con i fan. E con i critici (di professione e non)? «Con loro no. Non sono interessato ai giudizi negativi salvo quando ne ricevo di sensati, cosa in verità succede raramente. Non ho mai risposto direttamente attraverso Facebook o Twitter alle critiche anche se - ora che mi ci fa pensare - direi che potrebbe essere una buona idea. Se qualcuno scrivesse una terribile recensione di un mio libro, forse potrei parlargli direttamente attraverso i social è dire "ti sbagli, è meglio di così!". Ci vedo dei rischi, ma penso che prima o poi potrei farlo».
Abbiamo ancora bisogno dei libri di carta? «Ci sono persone che ancora li amano. Credo che nel tempo, da qui a dieci anni, la situazione si stabilizzerà con una parte consistente dei lettori che continuerà a preferire la carta. Al momento gli ebook crescono enormemente, ma credo che alla fine ci sarà ancora chi sente il bisogno di vedere i libri che legge sistemati in casa su uno scaffale. Quello che noto osservando i miei quattro nipoti sotto i cinque anni, è che sono perfettamente a loro agio con l'iPad. La sera racconto loro storie leggendo libri di carta - gli stessi che usavo con i miei figli, peraltro - ma loro nascono con il libro digitale e sono sicuro che in futuro preferiranno leggere da uno schermo».
Ci sono servizi online che consentono a chiunque di pubblicare online il proprio libro. Il self-publishing è un'illusione o una reale opportunità? «Credo sia entrambe. Ci sono e ci saranno parecchie persone che ricorrono al self-publishing per pubblicare cose che nessuno vorrebbe mai leggere ma, ogni tanto, emergerà qualche autore di talento. La cosa veramente interessante è che, molto spesso, il romanzo più brillante è originale è quello che gli editori non sanno riconoscere, o che impiegano molto tempo a individuare. L'esempio famoso è quello de "Il giorno dello sciacallo" di Frederick Forsyth: un gran libro rifiutato da molti editori prima di diventare un successo mondiale che ha cambiato radicalmente il nostro modo di intendere quel genere letterario. Un po' come quando dissi ai miei editori che volevo scrivere un libro sulla costruzione di una cattedrale nel Medioevo ("I pilastri della terra" ndr) e loro mi dissero "Oh no!" (ride). Credo quindi che il self-publishing alla fine sia una buona cosa perché sarà anche grazie ad esso che - forse una volta ogni dieci anni - scopriremo un nuovo grande libro».
Alcuni critici sostengono che self-publishing, per essere remunerativo, forzi la mano a scrivere sequel, spesso con pessimi risultati. «Il fenomeno per il quale si scrivono libri in serie è già affermato nell'editoria tradizionale. E funziona. Basti pensare a Sue Grafton, che dopo aver scritto "A come Alibi" ha prodotto quasi un romanzo all'anno per vent'anni con grande successo. E' un ottimo modello di business per gli editori, che ora grazie agli ebook hanno anche la possibilità di tenere in vendita sullo "scaffale" un quantità infinita di libri a costi risibili».
Forse però non tutti le storie dovrebbero avere un seguito… «Io stesso ho scritto il seguito de "I pilastri della terra", che pure non era nato per averne uno. Nel mio caso specifico, sono state le persone - i lettori e non gli editori - a chiedermi di farlo. Il vero problema, semmai, è che quando si crea un libro ha successo c'è la tentazione di scriverne un altro e di farlo nel modo peggiore, cioè copiando il primo e limitandosi a cambiare i nomi dei personaggi e la copertina. È una tentazione terribile cui si deve resistere».
Se iniziasse oggi, proverebbe con il self-publishing? «No, credo che mi rivolgerei un editore tradizionale».