"Chi utilizza i social network o fa ricerche online è un lavoratore non pagato dei grandi colossi del web. E si è ormai passati dall'economia del dono a quella dello sfruttamento". Parla il sociologo Antonio Casilli, studioso dell'evoluzione della privacy

“Tutti noi, utilizzatori dei social, siamo ormai diventati degli schiavi che lavorano gratuitamente per Facebook, Google e Amazon”.

Antonio Casilli, Professore associato di Digital Humanities al Télécom ParisTech e ricercatore in sociologia al Centro Edgar Morin, ha tesi precise ed esplicite. Qualcuno, che in una formula forse riduttiva lo chiama “sociologo dei network”, lo ascriverebbe nel novero dei “cervelli in fuga”. La Francia lo ha accolto, ne ha pubblicato gli scritti e lo considera alla stregua di un prezioso “saggio”. A febbraio uscirà il suo nuovo libro, "Against the Hypothesis of the End of Privacy" (Contro le ipotesi della fine della privacy), scritto con Paola Tubaro, dell'Università di Greenwich di Londra, e la sua allieva Yasaman Sarabi.

Si è parlato spesso, in questi anni, dell'ipotesi di fruire delle piattaforme social a pagamento. La sua tesi è contrapposta: siamo noi utenti, al contrario, che dovremmo essere retribuiti.
Negli anni Novanta alcuni teorici come Richard Barbrook teorizzavano internet come un'economia del dono: una dimensione simile a quella delle società tradizionali descritte dagli antropologi del secolo scorso. Non più un'economia di scambio commerciale, ma un sistema basato sul dono e contro-dono. Su questa idea si è fondata molta dell'ideologia del web: tempo, contributi e competenze gratuite per creare comunità di cooperazione. Utenti che donavano contenuti a piattaforme che però li monetizzavano. Solo pochi anni fa, a questo modello si è opposta una soglia critica di fruitori e studiosi. Quando l'Huffington Post fu venduto nel 2011 ad Aol per la cifra di 315 milioni di dollari, la mobilitazione dei blogger che vi lavoravano - e adopero questo termine non a caso - fece riflettere sulla trasformazione dell'economia del dono in economia dello sfruttamento. Anche a livello di ricerca universitaria.

Cos'è il digital labor?
La ricerca ha analizzato il sistema con cui s'alimentano queste piattaforme sociali e contributive, come Facebook, i blog, Amazon o Google. Si tratta di forme di lavoro volatile a bassa intensità e basse competenze: la base della costruzione del valore di questo tipo di imprese. Penso al caso di Amazon che ha concepito un servizio di crowdsourcing chiamato “Mechanical Turk”. Consiste nel richiedere agli utenti delle micro-mansioni che un algoritmo non potrebbe esaurire in automatico: riconoscere persone, classificare e ordinare video e musica attraverso dei tag. Per ogni clic, foto o playlist i fruitori vengono pagati pochi centesimi. Ma non è altro che lavoro che produce un valore certo per Amazon, che a sua volta rivende i contenuti ad altre imprese. Si chiama “mercato a doppia faccia”: Amazon si fa intermediario tra offerta e domanda, sfruttando l'offerta, cioè i microlavoratori che s'iscrivono.
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Anche Facebook sfrutta il lavoro di tutti noi, senza retribuirlo?
Facebook, in fondo, fa una cosa non dissimile: invita l'utente a partecipare a un servizio in apparenza ludico. Ogni profilo, involontariamente o consapevolmente, da una parte nutre la piattaforma di contenuti, ma al contempo continua a rispondere a domande algoritmiche che sono, di fatto, veri e propri questionari di marketing. È un reale modello d'affari, basato sul lavoro gratuito. Con Google è perfino peggio. Ogni ricerca che si compie sul motore è un contributo a un sistema di review, raccomandazioni, tag e spazi pubblicitari. Si parla di vera e propria “fabbrica a cielo aperto”. Ma ciò a cui per ora non si pensa – eppure sarebbe bene porsi il problema – è lo scenario che genererebbe una presa di coscienza di massa su tutto questo. Uno scenario spaventoso su future conflittualità sul lavoro.

E qui interviene anche il delicato discorso sulla privacy.
Esattamente. Perché la materia di lavoro di cui si parla non è fatta di contenuti qualsiasi: si tratta di dati personali. Google, attraverso una rete di algoritmi, legge automaticamente le nostre mail per poi rivendere i nostri dati. Così come fa Facebook. Ciò di cui ancora non si ha piena consapevolezza è che noi stiamo combattendo una vera e propria guerra culturale attorno al concetto di vita privata. Zuckerberg vorrebbe farci credere che la vita privata è finita, e che dobbiamo in qualche modo rinunciarvi.
È un approccio pericolosissimo e che, peraltro, ha trovato resistenze nel tempo. Pensiamo alle forme di attivismo che si sono costituite a inizio Duemila. Nel 2006, quando fb introdusse i “newsfeed”, le proteste di oltre 300mila utenti, riuniti sotto il gruppo Students against fb news feed, costrinsero Zuckerberg a scusarsi e a limitarne lo strumento. Nel 2007 altri 50mila utenti fondarono l'associazione Moveon.org contro l'introduzione su fb di un aggregatore di pubblicità multipiattaforma che, in seguito alle contestazioni, fu poi chiuso. Intervenne perfino la Trade Federal Commission cui i senatori satatunitensi si rivolsero nel 2010 per stabilire delle linee guida sull'utilizzo dei dati personali sul social. Zuckerberg tornò ad aggiustare la misura, introducendo dei parametri “semplificati” sulla privacy. Nell'agosto dell'anno successivo nacque Europe versus fb. Org, quando fb si rifiutò di dare accesso ai dati raccolti su ciascun profilo.

Il concetto di privacy, comunque, si è molto modificato.
Questo è vero. Accanto alla vecchia concezione, ereditata dalla cultura liberale anglossasone del XIXesimo secolo, oggi convive il concetto di “privacy come negoziazione”. All'epoca s'immaginava un individuo solo e isolato all'interno della propria bolla sociale. Un'intimità che qualcuno poteva penetrare. Oggi, con l'utlizzo delle tecnologie, scopriamo e decidiamo noi, a seconda del contesto o della piattaforma utilizzata, cosa rivelare di volta in volta. Spesso è un processo empirico, fatto di tentativi.

In una società individualistica come la nostra, può esistere una giusta misura tra narcisismo e privacy?
La nostra società non è poi così individualistica come si crede. Quando studio un profilo singolo, lo faccio sempre in relazione alla collettività cui si rivolge. Non credo che sia il narcisismo a spingerci a pubblicare qualcosa sui social, quanto la reazione che consegue a ciò che pubblichiamo, e cioè gli altri. Il narcisismo non è altro che una maniera di relazionarsi agli altri.

Il caso Snowden ha fatto deflagrare il dibattito sulla tutela della privacy in tutto il mondo, coinvolgendo individui, governi, istituzioni. Lei cosa pensa della vicenda?
Quello che il whistleblower americano ha rivelato non è tanto che gli Stati Uniti siano una sorta di piovra tentacolare, capace di catturare informazioni sui dati che produciamo, quanto l'estensione, seppure involontaria, della nostra partecipazione al sistema. Nessun governo, in fondo, ha nascosto delle microcamere nelle nostre abitazioni o nei luoghi di lavoro. Tutti i cittadini hanno concorso a nutrire il database, lasciando tracce del proprio passaggio. Siamo giunti al paradosso che colui che può essere additato come “paranoico” è in fondo lo stesso che ha ragione di esserlo. Penso al recupero dei dati, a partire dai cavi: qualcosa che, solo fino a qualche anno fa, poteva sembrare materia da spy story.

Crede che dopo questo caso qualcosa sia realmente cambiato, in termini di consapevolezza?
Bisogna fare dei distinguo. A livello di utenza, credo che oggi ci troviamo nella condizione di “pugili suonati”, che ancora non si sono rialzati dopo il colpo ricevuto. Ma penso sia solo una questione di tempo: ci sarà presto una reazione forte e strutturata. Nel 2013 l'uso dei social non è più quello ingenuo e spontaneo dell'inizio degli anni Duemila. A livello di grandi istituzioni, invece, si è già intrapreso un sano cammino di allontanamento, e riformulazione delle alleanze interne. Non si può più tornare indietro perché la diffidenza è decuplicata. Penso alle chiare prese di distanza dell'Icann (Internet Corporation for Assigned Names e Numbers), l'ente internazionale no-profit che ha - tra gli altri - il compito di assegnare gli indirizzi ip e identificare il protocollo e la gestione del sistema dei nomi a dominio di primo livello.
O alle reazioni del W3C, (The World Wide Web Consortium), l'organizzazione che stabilisce gli standard per il World Wide Web, ad esempio. Oggi nessuno può più dire: “Non sapevamo”.

Qual è, in media, l'atteggiamento dei governi, di fronte alla gestione della privacy dei cittadini?
Attualmente assistiamo a un'attitudine ben radicata, doppia e ambigua. Per poter recuperare dati i governi sono costretti a stringere accordi commerciali con i grossi gruppi digitali come Google, Twitter, Facebook. Al contempo, accusano gli utenti di un uso disinvolto e naïf dei social o del web. Quasi attribuendo loro parte della responsabilità. Non parlo solo di figure politiche, ma anche di individui legati a mondi di impresa, come Jeff Jarvis, il giornalista americano che sul suo blog ha raccontato pubblicamente del suo cancro alla prostata. Col suo libro “Public Parts” teorizzò la tesi che la privacy sia finita (contro cui si schierò il sociologo Morozov, ndr).

Veniamo all'Italia. A che punto è il dibattito sull'utilizzo del web e sulla privacy?
L'Italia resta un paese profondamente reazionario, con rigurgiti repressivi molto forti che giustificano tentativi di misure liberticide che si è cercato di adottare, negli ultimi anni, anche a livello governativo. Questo è dipeso, in parte, da una classe politica anagraficamente vecchia, e in parte dalla scarsa penetrazione di internet sul territorio, dal digital divide. Ma è anche una questione culturale. Penso al caso di Mentana che ha chiuso l'account twitter, dopo l'attacco di altri utenti. È ridicolo. Oggi vanno molto di moda le campagne contro il bullismo, la violenza e il trollismo. Io studio i “troll” da anni e penso che il fenomeno, in realtà, sia semplicemente l'espressione di un disagio degli utilizzatori dei social, perché si sentono sfruttati dal digital labor: una naturale reazione alla mancanza di “democrazia”. Bisogna anche intendersi sulla definizione. Beppe Grillo individua i troll in tutti coloro che non sono d'accordo con lui, ad esempio. Ma il troll in sé non esiste: chiunque si ritrova ad esserlo prima o poi, per qualcun altro, in un determinato contesto.