Tanti sono nel nostro paese i pazienti inseriti nelle liste di chi aspetta un rene, un polmone o il cuore. E che devono affrontare la costante riduzione dei donatori giovani. Ma le nuove tecniche già in uso aumentano le speranze dei malati
Sono più di 6.500 gli italiani in attesa di un rene, quasi mille quelli che aspettano un fegato, quasi 700 coloro che sperano in un cuore nuovo e centinaia quelli in lista d'attesa per intestino, polmone, cornee e altri organi dalla cui disponibilità dipende la loro stessa esistenza. Un esercito di persone silenziose, cui non si pensa spesso, ma che hanno quasi sempre una qualità di vita scadente (per la dialisi o per le conseguenze del malfunzionamento dell'organo da sostituire) e che si trovano nella non facile condizione di sperare che le circostanze rendano disponibili organi funzionanti di persone che, prima di morire, hanno lasciato una disposizione specifica, o i cui parenti acconsentano alla donazione, prendendo una decisione non facile in poche ore.
È vero che nel nostro Paese una buona legge e una crescente consapevolezza hanno messo in atto una trasformazione culturale che ha aumentato il numero di coloro disposti a donare gli organi, ma è anche vero che, negli ultimi anni, sono costantemente diminuiti quelli che un tempo erano definiti i donatori ideali, ossia i giovani: da un lato il casco e le cinture di sicurezza che hanno salvato delle vite, dall'altro l'invecchiamento della popolazione fa sì che più persone vivano con organi danneggiati, a fronte di una diminuzione dei donatori giovani.
Insomma, servono nuove strategie. «A partire dal fatto», sottolinea Stefano Faenza, direttore dell'Unità Operativa Complessa di Anestesia e Rianimazione per la Chirurgia dei Trapianti del Policlinico S. Orsola, «di considerare tutti i pazienti in morte cerebrale come potenziali donatori escludendo solo quelli che presentano condizioni avverse che ne impediscano l'utilizzazione». E la buona notizia è che molte innovazioni scientifiche permettono di farlo.
A partire dalla possibilità di utilizzare anche gli organi delle persone non più giovani. Specifica Faenza: «Deve essere chiaro a tutti, medici ed infermieri, che l'età non è più un criterio di esclusione, che alcune comorbidità (due disturbi di origine diversa, n.d.r.) consentono ugualmente l'utilizzo degli organi». Il primo a introdurre la donazione da pazienti non più giovani, oggi accettata e praticata in tutto il mondo, è stato Giuseppe Remuzzi, primario di nefrologia e dialisi degli Ospedali Riuniti e dell'Istituto Mario Negri di Bergamo, attuale presidente dell'International Society of Nephrology, che ha intuito come spesso l'età anagrafica non corrisponda all'età biologica di un organo, per esempio di un rene o di un fegato. Ci sono cioè anziani che hanno organi biologicamente giovani, che possono essere impiegati con successo, a patto di verificarne prima lo stato.
Spiega Remuzzi: «Oggi più del 60 per cento dei donatori ha più di cinquant'anni, mentre nel 1990 non si andava oltre quell'età. Se la persona deceduta aveva più di 50 anni usciva automaticamente dal novero dei donatori potenziali. Poi abbiamo capito che questo era un grosso errore, anche se per poter utilizzare organi di persone non più giovani ci sono certamente alcune condizioni da soddisfare, la prima delle quali è la verifica della funzionalità con una biopsia e con altri test». Ciò significa che la struttura, oltre a tutto il personale medico, chirurgico e infermieristico, deve avere anche un tecnico di laboratorio sempre presente, 24 ore su 24. «D'altro canto», annota il nefrologo: «I malati stessi dovrebbero pretendere sempre di poter conoscere le condizioni dell'organo che viene loro proposto, a prescindere dall'età del donatore». È ormai stato dimostrato (anche da Remuzzi e dai suoi collaboratori) che i reni di un settantenne e spesso anche di un ottantenne possono essere trapiantati da soli o in coppia e lo stesso può valere anche per gli altri organi, anche se gli studi sono più indietro. Per quanto riguarda il cuore, esiste un Programma Adoners per poterli selezionare non più in base all'età, ma con criteri funzionali, che ha consentito trapianti di successo con cuori che, fino a poco tempo fa non sarebbero stati utilizzati. Di fatto, comunque, in Europa un organo su tre appartiene già oggi a un over 70.
Non solo. Il fatto è che molti organi non "sopravvivono" alla morte del donatore con ciò pregiudicando l'esito del trapianto. Spiega Faenza: «Questo riguarda la qualità del trattamento intensivo del paziente in morte cerebrale. Abbiamo le prove che dimostrano come l'esito funzionale dell'organo trapiantato sia molto migliore nei casi in cui durante le ore di osservazione si sia ottimizzato il trattamento. Bisogna impegnarsi a fondo nel supporto intensivo di modo da mantenere la qualità degli organi che devono essere prelevati ai fini di trapianto. La legge impone 6 ore di osservazione, ma per arrivare ad una stabilizzazione completa del donatore può essere necessario prolungare questo tempo. La morte cerebrale innesca una tempesta neuro endocrina che deve essere spenta per favorire una migliore gestione degli organi destinati al prelievo e al successivo trapianto».
Negli ultimi anni, poi, il numero di trapianti eseguiti è aumentato grazie alla progressiva regolamentazione di un tipo di intervento possibile anche in Italia, anche se poco praticato: quello da donatore vivente. Ancora Faenza: «Il trapianto da donatore vivente in Italia è regolato da una buona legge che vieta qualunque tipo di retribuzione. Al contrario, la normativa riguarda l'offerta liberale dei consanguinei del paziente o del coniuge, una volta che sia stabilita l'idoneità fisica. Oggi la tecnica rende possibile molti trapianti, è già consolidata per rene e il fegato, praticata per l'intestino ed ipotizzabile nel polmone. Questa opportunità dovrebbe essere comunicata ed esplorata, qualora ve ne siano gli estremi». E questo è possibile se si affronta l'argomento senza spingere sull'ecceleratore dell'emozione. Annota Remuzzi: «Piano piano anche in Italia si sta affermando l'idea che sia un dovere del medico prospettare sempre questa possibilità, qualora ve ne siano gli estremi, sia pure con tutta la delicatezza del caso. Da noi la percentuale di trapianti da donatore è rimasta ferma dal 2001 al 2011 attorno al 9 per cento, mentre secondo uno studio recente fatto in 93 Paesi, la media a livello mondiale supera il 60 per cento. Naturalmente, come per tutte le tecniche ad altissima specializzazione, è opportuno che questo tipo di interventi sia fatto solo in centri adeguati che hanno una grande esperienza e personale addestrato».
Quella dei trapianti è infatti una macchina complessa, che diventa sempre più compessa. E richiede centri di altissima specializzazione. Basta pensare al fatto che, oggi, negli Usa e in Europa si utilizzano anche gli organi di persone in morte cardiaca, che richiede una collaborazione multidisciplinare perfettamente coordinata. In Italia, gli specialisti del Policlinico S. Matteo di Pavia hanno messo in piedi un programma che cerca di farlo. commenta Faenza: «Ha prodotto risultati di estremo interesse».
L'idea di far vivere un organo oltre la persona che lo ha portato per anni e anni sembrava una follia solo una cinquantina di anni fa. Fermandosi un attimo a pensarci, provando a seguire i passi che portano i chirurghi e gli anestesisti rianimatori, ovvero coloro che tengono un corpo in vita oltre la vita di chi lo abitava, sembra di vivere un refrain da film di fantascienza: la medicina dei trapianti è così lontana dal senso comune che facciamo fatica a pensare che sia possibile. Così facciamo fatica anche a capire fino in fondo che il consenso a donare salva davvero una o più vite. E che se il numero degli italiani che si rifiutano di farlo scendesse sotto il 20 per cento le liste d'attesa sarebbero molto più corte.
Eppure in questo tipo di avanzatissima chirurgia l' Italia ha standard molto elevati. Insomma, possiamo fidarci. «Anche se», spiega Alessandro Nanni Costa, direttore generale del Centro Nazionale Trapianti e presidente del Comitato Trapianti del Consiglio d'Europa (CDPTO), «occorre lavorare molto per colmare quel gap che fa sì che ancora oggi il numero di trapianti effettuati al centro-sud sia circa la metà di quello degli interventi fatti al centro-nord. Esistono diversi centri anche al centro-sud (per esempio in Lazio, Campania e Sicilia) dove la qualità è già eccellente, ma altre realtà dove c'è molto lavoro da fare». E a evidenziarlo è anche il fatto che il mondo dei trapianti made in Italy
è tutto on line, compresi gli esiti che sono monitorati e studiabili.