La sentenza della Corte di Giustizia Europea ha imposto a Google la rimozione dei risultati di ricerca per i cittadini che lo richiedano. Ma ciò, spiega uno dei 'saggi' che sta analizzando il tema, ha creato un vuoto normativo. Che l'Europa dovrebbe affrontare con una legge, non delegando un'azienda

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Approssimazione, ipocrisia, problema irrisolto. La sentenza della Corte di Giustizia Europea dello scorso maggio che ha imposto a Google la rimozione dei risultati dalle ricerche per quei cittadini che ne facessero richiesta, in nome del diritto all’oblio, ha creato di fatto un vuoto normativo, una voragine incolmabile che è stata di fatto riempita delegando al motore di ricerca compiti che sono regolamentali e giuridici e che riguardano nel profondo la società, i suoi valori etici, la memoria, il futuro e l’identità dei cittadini.

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24/10/2014
A Google è stato sostanzialmente affidato il compito di decidere il merito, il criterio: di fare, di fatto, la legge. Ne abbiamo parlato con Luciano Floridi, docente di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford e membro del Consiglio di “saggi” costituito da Google per affrontare il problema.

A maggio, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia Europea, Google ha costituito un comitato di esperti, di cui lei professor Floridi fa parte. Obiettivo: la migliore soluzione possibile. A che punto siete?
A metà strada. Abbiamo raccolto un numero elevato di indicazioni e suggerimenti utili, ma la parte più difficile sarà scrivere il report finale che sarà pubblicato entro gennaio. Ci sarà una sintesi dei vari incontri e un’analisi dei problemi principali che questo “right to be forgotten” ha creato. La parte più difficile è elaborare una sintesi che ci indichi la strada lungo la quale procedere in futuro. La decisione della Corte di Giustizia, molto chiara su un caso specifico, ha lasciato moltissime variabili del tutto indeterminate. Dobbiamo capire come vogliamo organizzare la società dell’informazione in Europa. Capire oggi e cercare di dare forma al futuro.

Ma a seguito della sentenza della Corte, non avrebbe dovuto essere una istituzione europea ad effettuare queste valutazioni e stabilire le regole, invece di lasciare tutto nelle mani di un’azienda, Google?
Io penso di sì. Il pasticcio si è creato perché è mancato un coordinamento iniziale: molta buona volontà, ma di fatto è stato messa sulle spalle di una entità privata e commerciale quella che in realtà è una delle regole fondamentali di una società dell’informazione avanzata: gestire la la memoria. Sia io che lei proveniamo da una società che dava molta importanza alla memoria, siamo stati educati all’opposta previsione, all’importanza del ricordare, al fatto che la storia ha qualcosa da insegnarci. Passare da una generazione che è stata esposta al dovere di ricordare ad una generazione che invece, giustamente, richiede di poter dimenticare, non dovrebbe essere lasciato sulle spalle di un operatore privato ma sarebbe dovuta essere una visione architettonica, a metà strada tra l’ “esecutivo” ed il “giudiziario”. In realtà noi viviamo in una sorta di “ritardo cronico” storico per cui la tecnologia avanza molto più velocemente di quanto avanza la legislazione e la legislazione avanza molto più velocemente di quanto non avanzi la nostra comprensione concettuale di quanto sta avvenendo. La giusta decisione della Corte non è stata assorbita dal punto di vista legislativo.

In questi cinque mesi Google ha ricevuto oltre 150.000 richieste di deindicizzazione, accettandone circa il 41%. Non sarebbe stato preferibile e trasparente stabilire e chiarire prima i criteri?
Non credo che fosse possibile. Dal momento in cui la Corte ha emesso la sua sentenza i cittadini europei hanno il diritto di richiedere la rimozione di informazioni che non ritengono più pertinenti, rilevanti, accurate. Google ha dovuto immediatamente implementare delle regole, mettere su un ufficio, valutare queste richieste e decidere cosa fare. Se Google avesse detto: “Aspettiamo prima che queste richieste vadano ai garanti per le protezione dei dati”, sarebbe stato accusato di fare resistenza. Avendo preso la strada opposta è criticato per voler fare troppo. Per quanto riguarda la trasparenza ed i criteri, alcuni dati sono stati resi noti da Google sulle sue pagine relative alla trasparenza.

Ma su quelle pagine vi sono solo 14 esempi, senza alcun dettaglio o motivazione, delle decisioni intraprese da Google. Non è troppo poco di fronte ad oltre 500.000 casi?
Sono troppo pochi per avere una fenomenologia dettagliata di tutti i casi, sono sufficienti per avere un’idea generale dei casi in questione. I criteri adottati sono quelli forniti dalla corte europea: la non rilevanza… Ma concordo, sono criteri vaghi. Altra complicazione è che la Corte di Giustizia ha detto che tutto questo si applica a meno che l’individuo in questione non sia una figura pubblica. I politici, ad esempio, non possono proprio fare richiesta di rimozione. Ma anche la carica politica è una carica “a tempo”: qual è il criterio quando termina l’incarico ed il politico torna ad essere un privato cittadino? Le cose sono complicate e allora lei ha ragione quando dice che vi è una mancanza di trasparenza, ma non è una mancanza voluta, legata a cattiva volontà, è intrinseca nell’oggetto stesso, nel problema con cui abbiamo a che fare. È orripilante, in un paese liberale e democratico, orientato alla socialdemocrazia come l’Europa, che tutto questo sia stato lasciato nelle mani di una società privata.

In un suo articolo del Guardian dello scorso 21 ottobre, lei afferma che sarebbe preferibile porre, in primo luogo, in capo agli editori la valutazione sulla rimozione dei contenuti. Perché?
Se vogliamo veramente essere seri, nei casi in cui l’informazione deve davvero essere rimossa sarà molto meglio bloccarla o rimuoverla alla fonte. Basta mettere due righe su “robots.txt” per bloccare i motori di ricerca.

Nella sostanza però in rete quando una notizia viene pubblicata, viene immediatamente replicata su centinaia di siti. Per un cittadino trovare e poi richiedere la rimozione a tutti questi soggetti diventerebbe oneroso e complicato ed inoltre potrebbe creare un divide, tra chi meglio sa utilizzare le risorse della rete e chi no…
Non è più facile: se lei vuole rimuovere 700.000 indicizzazioni deve fare altrettante richieste al motore di ricerca.

Ma se la richiesta è unica e riguarda lo stesso soggetto per lo stesso motivo allora la prima rimozione implica di fatto tutte le altre…
Sembrerebbe. Però io utente, accorgendomi di questo potrei poi usare Google.com (il motore di ricerca americano: le richieste europee possono riguardare solo le estensioni europee del motore di ricerca ndr). In termini di efficacia dell’operazione, rimuovere i links dai motori di ricerca europei significa semplicemente indurre il cittadino ad utilizzare motori di ricerca non europei. La cosa è complicata, soluzioni esaustive non vi sono. Io suggerivo di creare un ordine di richiesta: prima all’editore, poi al motore, poi alla Corte, etc.. Sono consapevole che in molti casi questo non è possibile. Inoltre oggi, in Europa, si sono alzate forti voci da parte degli editori che vogliono essere interpellati. E a che punto interpellarli se non all’inizio? È una soluzione proposta, ma sono contento anche di trovarne altre se ci sono. In sostanza non si è trovato un equilibrio, Si è trovato un modo per non affrontare il problema che la rimozione del link non risolve. Mi sembra una soluzione ipocrita.