Non pensare, guarda, punta, scatta. Quando la fotografia diventa Pop
I maestri dello scatto davanti alla rivoluzione digitale. Nick Ut, premio Pulitzer 1973: "Il digitale mi ha consentito di vedere subito i risultati del mio lavoro, ha eliminato il rischio di tornare a casa senza lo scatto giusto"
Non pensare. Guarda, punta, scatta. Per ragionare c’è sempre tempo. Per correggere gli errori non mancano software quasi onnipotenti. L’importante è catturare l’attimo alla meglio, fissare l’immagine usando quello che ci si trova in tasca o nella borsa: spesso è lo smartphone; a volte è una reflex o una mirrorless di fascia alta; sempre più raramente una compatta.
E’ l’era della snapshot photography, degli scatti eseguiti in modo casuale e imperfetto: semplificando al massimo, oggi tutti fanno foto senza bisogno di essere fotografi, senza costi per le attrezzature, di sviluppo o di stampa. Senza troppe pretese, ma con implacabile determinazione a condividere tutto o quasi online.
La fotografia (o almeno una parte consistente di essa) è cambiata: è diventata Pop. Per la stragrande maggioranza delle persone è qualcosa che si produce in fretta, in maniera istintiva e spesso approssimativa, per documentare qualsiasi cosa, dall’apparizione del Vip al primo passo di un figlio, passando per il piatto del giorno nella trattoria preferita. E poi ancora per affermare la propria immagine sui social e gratificare l’ego a colpi di #selfie. Per esserci, fare parte della civiltà dell’immagine. Su Instagram, Pinterest, Flickr, e ancora Facebook e Twitter. E chi più ne ha più ne pubblichi.
[[ge:rep-locali:espresso:285140340]]E’ un bene o un male? Semplicemente, è la realtà dei fatti e bisogna farci i conti, tirarne le fila, mettere qualche paletto. Specie se si è professionisti in lotta (mai termine fu più adeguato) per conquistarsi un “posto al sole”, affermare il proprio talento. Per esempio partendo da due dati semplici ma rivelanti della rivoluzione in corso: «Negli ultimi anni, il mercato delle macchine fotografiche compatte è stato colpito a morte dalla diffusione degli smartphone – spiega Renato Rappaini, direttore generale di Leica Italia – mentre al contempo il numero di persone che fanno foto è decuplicato». Per Andreas Kaufmann, che di Leica Camera è l’amministratore delegato, «nei prossimi 5 anni la fotografia sarà né più né meno l’hobby numero uno al mondo, determinando un’evoluzione del mercato, degli utenti e delle loro richieste che molte case produttrici sembrano non aver ancora compreso appieno».
Quel che è evidente è che lo sviluppo tecnologico ha messo in tasca all’uomo della strada una fotocamera travestita da telefono, di fatto spiazzando l’industria fotografica tradizionale. Ma ha fatto di noi dei fotografi? «Possedere una penna non fa di me uno scrittore», taglia corto Amedeo Turello, fashion photographer di fama internazionale. «E’ evidente che la democratizzazione del mezzo fotografico seguita alla digitalizzazione ha reso la fotografia un medium alla portata di tutti – continua – tuttavia questo non vuol dire che siano aumentati con la stessa progressione professionisti e artisti». A essere aumentato esponenzialmente è sicuramente il numero di foto che ogni giorno ci passano sotto gli occhi, scattate con ogni genere di fotocamera e condivise sui social pochi istanti dopo.
Il resto lo fa la legge dei grandi numeri: come suggerisce il fotografo americano Craig Semetko, tra miliardi di foto pubblicate, finiscono con l’esserci anche foto ottime, a volte frutto di vero talento emergente, più spesso figlie di un colpo di fortuna. Poi però c’è il “rumore di fondo”, generato da miliardi di scatti che avremmo preferito non vedere. Uno tsunami di immagini che «di fatto abbassa di molto il livello medio della qualità, riduce le aspettative del pubblico e soprattutto sommerge il lavoro di chi ha veramente qualcosa da dire, rendendone molto più complicata l’emersione e il riconoscimento da parte di critica e pubblico». Colpa di chi (e sono in tanti) ha la pessima abitudine di pubblicare tutto quello che scatta, senza escludere nulla: «La gente parte per una vacanza, scatta 500 foto e le mette online senza alcuna selezione, quando magari se ne salvano appena 5. Intanto, noi non abbiamo ancora strumenti davvero efficienti per aggirare questa marea di scatti inutili e intercettare materiale di qualità», con tutti i problemi del caso.
«Lo scatto fortunato capita a tutti, ma è insignificante – gli fa eco Turello – se vinci al totocalcio non significa che tu sia capace di fare soldi. Per essere un professionista di successo oggi più che mai bisogna definire e imporre un proprio stile, saper caratterizzare il proprio lavoro, essere se stessi senza imitare sempre qualcuno. Saper esprimere attraverso le immagini la propria cultura e il proprio tempo. Se ci si riesce, che si usi il digitale o meno fa poca differenza». Per Turello, infatti, l’avvento del digitale non ha cambiato l’essenza del suo lavoro, quanto piuttosto ne ha semplificato gli aspetti pratici. Per esempio, liberandolo dalle borse piene di rullini che «non sapevi mai se sarebbero sopravvissuti ai raggi X negli aeroporti», o ancora velocizzando il suo lavoro al punto che «mi ci sono voluti 20 minuti per fare una copertina e 20 pagine con Naomi Campbell».
Dello stesso avviso è anche il fotografo di guerra Nick Ut, premiato nel 1973 con il Pulitzer per aver raccontato magistralmente l’orrore della guerra in Vietnam e dei bombardamenti al napalm. Dopo 40 anni di carriera nel fotogiornalismo, Ut non ha dubbi: «Il digitale è stata una “liberazione” – spiega – perché mi ha alleggerito agevolando i mie movimenti, mi ha consentito di vedere subito i risultati del mio lavoro aggiustando il tiro dove serviva. Insomma, ha eliminato il rischio che tornassi a casa senza lo scatto giusto. L’importante è avere l’accortezza di portarsi dietro qualche scheda Sd e batteria di riserva quando si parte per luoghi remoti, dove non sai cosa troverai».
Ma la vera domanda è se il digitale ha cambiato il fotogiornalismo: «No, e non deve cambiarlo – è la netta risposta di Nick Ut – quando faccio lezione ai giovani dico loro che devono pensare la foto, devono imparare a comporla in testa, immaginarla. Dico loro di comportarsi come se avessero un rullino. Di scattare il meno possibile imparando a cogliere il momento giusto. Per raccontare una buona storia basta una foto. Al massimo ne servono due».
Dello stesso avviso è anche Gianni Berengo Gardin, di certo uno dei più grandi maestri della fotografia italiana che, dall’alto dei suoi 55 anni di carriera vissuti con una Leica rigorosamente analogica, guarda al mondo del digitale con disincanto e senza nascondere una certa ironia: «Questo andazzo moderno non mi piace e non mi dispiace, semplicemente è un’altra cosa rispetto al passato», dice con aria divertita, ma sta solo prendendo tempo prima di affondare il colpo. «Il digitale ha cambiato la mentalità dei fotografi – afferma, con lo sguardo serio – che ora scattano a mitraglia perché tanto, se la foto viene male, la modificano con Photoshop. La fotografia che conosco io è una roba diversa».
Per spiegare quanto diversa, Berengo Gardin cita una recente pubblicità, dedicata proprio a una macchina fotografica digitale: «Non pensare, scatta, dicono nello spot, mentre io ai miei allievi dico esattamente il contrario. Dico di pensarci bene e scattare solo se ne vale la pena, altrimenti meglio rinunciare». Già che c’è, il maestro non risparmia una frecciatina anche ai fotografi improvvisati, spiegando che «ormai la gente compra una macchina fotografica al venerdì, la usa il sabato e poi già la domenica dice “sono un fotografo”». Ma il vero fotografo - sottolinea - è come il chirurgo: non si improvvisa. Per esserlo «bisogna studiare, e tanto. Io alla mia età continuo a comprare libri e a studiare quello che fanno gli altri. La preparazione è fondamentale».
Dunque, lo sviluppo tecnologico ha messo nelle nostre mani fotocamere digitali di ogni genere, forti di una qualità ormai equivalente a quella dell’analogico e tuttavia molto più semplici da usare. Per di più dotate di automatismi tali che quasi scattano foto da sole. Letteralmente. Splendidi oggetti tecnologici che conferiscono a chi li usa (professionista o no) un grande potere – quello di fermare l’attimo e catturare la bellezza – ma anche una grande responsabilità: saper scegliere cosa condividere con il resto del mondo. Per esempio, seguendo i pochi e semplici consigli offerti da Craig Semetko: «Esercitate una forte auto-regolamentazione, siate selettivi, guardate ai maestri e imparate da loro, condividete solo il vostro meglio, perché nessuno ha bisogno di vedere online i vostri errori. Neanche voi».