La biologia sintetica. Le nanotecnologie. L’intelligenza artificiale. Il creatore di uno dei protocolli alla base della Rete racconta come sarà il futuro

Vinton Cerf è considerato uno dei padri di Internet: è l’uomo che 40 anni fa ha creato insieme con Robert Kahn il protocollo di trasmissione TCP/IP, quello che “fa funzionare” la Rete. Oggi è un uomo di 71 anni che non smette di studiare, di cercare e di prevedere a che cosa porterà la rivoluzione tecnologica. Negli ultimi tempi, ad esempio, si è interessato anche della costruzione di un protocollo “galattico” per la comunicazione fra pianeta e pianeta. Oggi è senior vice president of Technology Strategy per Google e tiene conferenze in tutto il mondo, sempre affollatissime di ragazzi e non solo. “L’Espresso” lo ha intervistato sulle prospettive, buone e meno buone, che ci aspettano di qui ai prossimi anni.

Signor Cerf, negli ultimi giorni si è molto parlato della creazione del primo batterio semi-sintetico. Quali sono oggi secondo lei le tecnologie più promettenti e più importanti?
«La biologia artificiale è uno dei campi più interessanti perché la capacità di manipolare Dna e Rna per creare materiali organici artificiali porterà straordinarie innovazioni. Così come le nanotecnologie applicate ai materiali, che ne controllano la struttura per sfruttarne proprietà speciali. Questo è un settore che sicuramente cambierà moltissime cose».
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Poi?
«Terrei molto d’occhio l’intelligenza artificiale, che negli ultimi 15 anni ha fatto importanti passi in avanti anche grazie al fatto che i sistemi di comprensione del linguaggio umano sono diventati molto più efficaci e reattivi».

Altro?
«La progressiva introduzione dei computer nel contesto delle nostre normali e quotidiane interazioni: un esempio è rappresentato dagli occhiali intelligenti come i Google Glass, che vedono ciò che vedi e sentono ciò che senti, e fanno sì che i computer diventino partecipativi di ciò che fai mentre interagisci con le altre persone. Le macchine che smettono di essere degli strumenti e diventano partner di chi li usa, o meglio li indossa».

In molti casi sembra fantascienza.
«Forse. Tuttavia credo che nei prossimi due decenni queste tecnologie saranno alla portata delle persone normali. È la storia della tecnologia: quando ne compaiono di nuove sono costose, piene di bug, persino brutte, alla portata solo delle istituzioni che possono investire cifre importanti. Poi, con il tempo, troviamo il modo di renderle sempre meno costose, di miniaturizzarle, fino a trasformarle in personal device che ci possiamo portare dietro. Da qui a trent’anni porteremo in tasca molte delle cose che oggi sembrano irraggiungibili. A proposito di fantascienza, diverse tecnologie anticipate dalla serie “Star Trek” stanno per diventare realtà: per esempio il tricorder, computer portatile tuttofare con cui i personaggi della serie analizzano a distanza fonti di energia e pazienti».
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E il teletrasporto?
«Su questo sono meno ottimista, perché non credo che avremo mai abbastanza energia da farlo funzionare».

Lei è tra i padri di Internet. Cosa pensa oggi quando guarda alla sua creatura?
«Sono molto contento della crescita delle Rete, che ormai è un milione di volte più ampia di quando l’abbiamo “accesa” per la prima volta. Posso dire che ha soddisfatto molte delle nostre speranze e aspettative. Certo, alcune persone ne abusano, ma credo che gli abusi siano piccola cosa se confrontati con il valore che grazie a essa si crea, o all’enorme quantità di informazioni che ha consentito e consente di condividere. E poi è ancora veramente aperta, nonostante alcune nazioni cerchino in tutti i modi di controllarla, imbrigliarla e limitarla. Cosa che comunque sarebbe davvero stupida, visto che il vero valore della Rete è proprio dare a chiunque la possibilità di raggiungere qualcun altro ogni volta che vuole, così come di lavorare assieme per innovare senza chiedere alcun permesso. Porre un limite a questo sarebbe un vero errore. E noi non dobbiamo permetterlo».

Aspetti negativi?
«Il crescente impiego delle tecnologie nella creazione, diffusione e archiviazione della conoscenza ci pone di fronte a un problema: chi verrà dopo di noi sarà in grado di leggere i contenuti che creiamo oggi? Sembra una domanda banale, ma non lo è: nessuno può infatti garantire che l’immensa mole di documenti digitali che generiamo oggi sarà ancora accessibile fra dieci, cento o mille anni, quando i nostri computer si saranno evoluti in macchine la cui potenza e i cui meccanismi di funzionamento ora non sappiamo neanche immaginare. Non so voi, ma io non vorrei mai trovarmi nei panni di chi, magari fra un secolo, avvierà un computer su cui gira una cosa tipo ‘Windows 3000’ per tentare di aprire un documento Power Point creato nel 1998».

Un problema grave?
«Diciamo che abbiamo una grande sfida da affrontare, perché dobbiamo pensare un modo affinché i contenuti che abbiamo prodotto, il software che abbiamo usato, persino lo stesso hardware su cui tutto girava, siano noti e riutilizzabili da chi verrà dopo di noi, un domani distante centinaia o anche migliaia di anni. Finora, però, nessuno di noi ha “fatto i compiti” e, se continueremo su questa strada, c’è il rischio concreto che il nostro mondo così come era alla fine del ventesimo e all’inizio del ventunesimo secolo rappresenti un grande mistero per la gente del futuro. In pratica, è come se stessimo scavando un buco nero nella storia, perché evidentemente non siamo così svegli come ci piace credere di essere».

Questo è un problema che si ripropone un po’ in tutti i settori…
«Esatto. Facciamo sempre più conto sulla tecnologia per svolgere ogni genere di attività e le cose si evolvono in fretta, tanto che presto avremo macchine che si guidano da sole e strumenti che si organizzano da soli. Già oggi siamo profondamente dipendenti da questa roba, eppure non è affatto chiaro quanto a lungo sopravvivrà ogni singola tecnologia che abbiamo adottato. Se per esempio pensiamo all’Internet delle Cose, a come tanti oggetti e strumenti che si trovano nelle nostre case, nei nostri uffici e nelle nostre tasche si connettono autonomamente tra loro per svolgere insieme compiti complessi, la sfida - tutt’altro che banale - è garantire nel tempo la loro interoperabilità attraverso l’adozione di standard comuni».

Con Internet ci siete riusciti, ed esiste da parecchio.
«Per trent’anni abbiamo avuto la fortuna di avere standard comuni e condivisi, ma ora ci attende un periodo transizione (il passaggio dall’ipV4 all’Ipv6 ndr) che genererà più di un mal di pancia. Mi preoccupa il fatto che anche nel preciso momento in cui parliamo ci sono eserciti di programmatori e produttori che realizzano software e hardware senza porsi il problema della loro futura compatibilità».

A chi spetta risolvere il problema?
«A volte accade che una singola entità, per esempio una specifica azienda, trovi da sola una soluzione tanto innovativa ed efficace da riuscire a imporla rapidamente sul mercato. Più aspesso, problemi come questo vengono affrontati collaborativamente da molte persone sparse per il mondo. In ogni caso, alla fine prevale la soluzione che viene adottata da una massa critica necessaria e sufficiente ad accelerarne diffusione e affermazione. Un po’ come è successo tanti anni fa con la guerra tra Betamax e VHS, quando entrambi i formati per la registrazione video erano sul punto di imporsi sul mercato e infine ebbe la meglio il secondo, nonostante fosse inferiore qualitativamente».