Cinquemila nuove sale l’anno. Studi di produzione sempre più grandi. Ora è Pechino la nuova mecca del cinema. E gli Stati Uniti ?corrono ai ripari

Da decenni, ogni volta che gli studios di Hollywood organizzano tour promozionali delle star per lanciare i loro film, le metropoli da visitare si ripetono. Londra è un punto fisso, poi vengono Parigi e Berlino, se c’è più tempo si aggiungono Tokyo e Sydney, talvolta Seul e Mosca, quando va proprio bene spunta fuori anche Roma. Ma quando a fine marzo la Warner ha dovuto presentare “Transcendence” e ha visto che Johnny Depp, il protagonista, aveva solo pochi giorni disponibili, non ha avuto dubbi e lo ha spedito a Pechino. Durante le 48 ore della sua prima visita in Cina, l’attore si è dato molto da fare: ha esibito con fierezza i suoi tatuaggi ispirati all’I-Ching, ha mostrato di conoscere rudimenti di calligrafia cinese, ha anche fatto sapere quanto ha apprezzato la cucina locale. Alla fine però non si può dire che sia andata molto bene. “Transcendence” (che era stato co-finanziato dalla cinese Dmg Entertainment) ha incassato una quindicina di milioni di dollari, l’equivalente di quanto realizzato negli Usa. E poco più di quello che il re del box office cinese, “Where are we going dad?”, ha incassato in un solo week-end. “Captain America: The Winter Soldier” invece è andato meglio. Anche in questo caso c’è stata la visita rituale del cast, con Chris Evans, Samuel L. Jackson e Scarlett Johansson a scorrazzare per le strade della capitale cinese. Ma in quel caso i loro sforzi sono stati ripagati: 39 milioni di dollari al primo week-end, oltre 100 dopo dieci giorni. Un risultato senza precedenti, che ha portato molti fan a chiedersi attraverso i social media locali quando verrà il giorno di un “Captain China”, di un supereroe che combatte contro la corruzione del governo loro e non solo di quello a stelle e strisce. Il tutto in attesa del 4 maggio, giorno dello sbarco in Cina del nuovo “Spider-Man”, per la cui promozione Andrew Garfield è arrivato a farsi fotografare a zonzo nella Città Proibita con la co-protagonista Emma Stone e con Jamie Foxx.

«La Cina in questo momento è il luogo più caldo del mondo dell’entertainment», assicura Peter Shiao, fondatore dell’Orb Media Group, con sedi a Los Angeles e Pechino. Non male per un luogo che agli occhi di Hollywood solo dieci anni fa era inesistente: e la trasformazione, come accade spesso, è stata dettata dal denaro. Tanto denaro: il botteghino cinese continua a crescere proprio ora che quello americano è stagnante. Anzi, nel primo trimestre di quest’anno gli incassi negli Usa sono scesi del 6 per cento, mentre quelli cinesi hanno fatto un salto del 30 per cento, superando il miliardo di dollari. E non è finita. Con cinquemila nuove sale costruite ogni anno, nel 2017 accadrà un evento che solo pochi anni fa sarebbe stato inimmaginabile: il sorpasso del mercato Usa. E, se le proiezioni reggono, per il 2023 ci sarà il raddoppio.

Anche se le autorità consentono la distribuzione di solo 34 film stranieri l’anno (che presto dovrebbero salire a 44) ci sono insomma abbastanza soldi per giustificare lo sforzo di adattare le produzioni hollywoodiane al gusto degli spettatori cinesi e, quando necessario, a quello dei suoi imprevedibili censori. Il presidente e fondatore della Dreamworks Jeffrey Katzenberg, accusato di avere ceduto alle pressioni governative nel produrre la serie “The Tibet Code”, è stato costretto a chiarire che la nuova serie animata sarà un adattamento di romanzi ambientati nel nono secolo e che non ci sono secondi fini politici, ma solo il desiderio di trarne un blockbuster. Brad Pitt, che nel 1997 era stato il protagonista di “Sette anni in Tibet”, film non ben visto dalle autorità di Pechino anche se ambientato prima dell’occupazione della regione, quando si è ritrovato a produrre “World War Z” ha pensato che era meglio che l’origine dell’epidemia di zombie non fosse cinese ma russa. Anche i cattivi del remake di “Red Dawn” hanno cambiato nazionalità, da cinesi in nord-coreani, mentre per il terzo “Iron Man” non è bastato che Robert Downey Jr. arrivasse a sostenere di avere adottato «uno stile di vita molto cinese»: per evitare ogni confusione, il nome del cattivo interpretato da Ben Kingsley è stato modificato da “Mandarin” a “Man Daren”. Poi c’è il numero quattro di “Transformers”, in uscita a giugno, che ha usato un reality per selezionare quattro attori cinesi che recitano al fianco dei mega-robot.

Hollywood può insomma dormire sonni tranquilli: anche se in patria la tendenza è al ribasso, le sue fabbriche di sogni continuano a sfornare prodotti che incantano il resto del mondo. «Abbiamo avuto un incredibile, fantastico 2013 grazie al mercato estero, anche cinese», assicura Chris Dodd, che ha lasciato il mestiere di senatore per prendere le redini della Motion Picture Association of America. Ma la concorrenza cinese è destinata ad aumentare: l’obiettivo delle autorità locali infatti non è la semplice crescita del numero di sale, e quindi degli incassi al botteghino, ma anche quella delle produzioni locali, che oggi rappresentano il 60 per cento del mercato. La non troppo segreta ambizione del Presidente Xi Jinping è anzi quella di fare della Cina molto di più che un gigante manifatturiero che esporta mobili e maglieria da pochi soldi. Ora punta sul “soft power” o meglio, come ha spiegato il politologo di Harvard Joseph Nye, «sulla capacità di ottenere ciò che vuoi attraverso l’attrazione invece che la costrizione». Il presidente ha chiesto dunque una «spinta alla competitività e all’influenza della cultura cinese sulla scena mondiale».

Per ottenere questo obiettivo politico, non bastano i successi che funzionano solo per il mercato cinese, come “From Vegas to Macau”: bisognerebbe riuscire a riprodurre fenomeni come “La tigre e il dragone” di Ang Lee, quattro Oscar e 213 milioni di dollari in giro per il mondo, che risale all’ormai lontano 2000. Per arrivarci si profilano varie strade. La prima è la creazione di un’adeguata infrastruttura: il numero delle sale che cresce in forma esponenziale, dunque. E poi studi e teatri di posa, come la Oriental Movie Metropolis che Wang Jianlin, uno dei cinesi più ricchi, sta costruendo a Qingdao, giusto a metà strada tra Shanghai e Pechino. Due anni fa il magnate ha comprato pure la Amc, seconda catena di cinema negli Usa. E ora sta costruendo il più grande e moderno studio cinematografico al mondo, con venti sale di posa per cinema e Tv che potrebbero produrre cento progetti l’anno, oltre che un festival, più alberghi e uno yacht club. Wang Jianlin si è impegnato a investire otto miliardi di dollari. E per dare fin da subito un tono internazionale al tutto ha pensato bene di fare arrivare a bordo di jet privati Nicole Kidman, Christoph Waltz, John Travolta, Catherine Zeta-Jones e Leonardo DiCaprio. «È l’inizio di una nuova era», ha commentato solenne Travolta.

È una stagione segnata dalle co-produzioni: solo nelle ultime settimane ne sono state annunciate una mezza dozzina. Il China Film Group ha deciso di investire in due progetti della Legendary Pictures, “Seventh Son” con Jeff Bridges e “Warcraft”, basato sull’omonimo videogame. Ha anche annunciato che assieme con la Paramount produrrà un film di azione in 3D basato sulla vita di Marco Polo. Lo Shanghai Media Group ha firmato per sviluppare film con la Disney mentre la Huayi Bros ha investito 150 milioni di dollari in una società gestita da Jeff Robonov, ex numero uno della Warner Bros. «Procederemo seguendo le regole di Hollywood», assicura Wang Zhongjun, presidente della Huayi.

Con cinquemila anni di imperatori, di guerre e di miti a cui ispirarsi le storie non mancano, ma ci sono vari ostacoli. «Il problema della nostra industria non è il denaro», spiega ancora Wang Zhongjun. «Quello di cui abbiamo bisogno è il talento». C’è anche la questione della lingua. Ma ancora più ingombrante è il problema della censura, che porta molti registi a cercare rifugio nella commedia o in film storici ricchi di allegorie che gli spettatori occidentali non riescono a cogliere. Ogni film distribuito nel territorio cinese deve infatti venire approvato dal Censorship Board, un corpo costituito da 37 individui che passano al setaccio ogni scena e ogni battuta e che possono impedire o rinviare l’uscita di un film per i motivi più pretestuosi. Come accaduto al terzo episodio di “Mission Impossible”, reo di avere mostrato dei panni stesi fuori dalle finestre di Shanghai. O a “Django” di Quentin Tarantino, sospeso al primo giorno di programmazione per la troppa violenza, anche se c’è chi sospetta che a far agitare i censori sia stata la storia in sé, con quegli schiavi che si ribellano ai padroni. E guai a rappresentare temi come la corruzione, la prostituzione, le disuguaglianze, la violenza. Ne sa qualcosa Jia Zhangke, il cui “Touch of Sin” ha vinto l’anno scorso a Cannes per la miglior sceneggiatura ed è stato salutato dalla critica occidentale come il “Taxi Driver” cinese. E che in Cina non è uscito nemmeno in Dvd.

Anche se non è stato detto apertamente è proprio in segno di solidarietà a Zhangke che alla premiazione annuale dei registi cinesi, all’inizio di aprile, la giuria ha deciso di non assegnare i due riconoscimenti più importanti, la miglior regia e il miglior film. «Nessun film ha avuto uno standard sufficientemente elevato», ha spiegato non troppo diplomaticamente Feng Xiolgang, che dell’associazione dei registi è il presidente e che, con alle spalle film come “Aftershock” e “Back to 1942”, viene considerato lo “Spielberg cinese”. È anche uno dei pochi che non hanno paura di parlare in modo esplicito, arrivando a definire i censori «il tormento» dei registi cinesi. «Arrivano i loro ordini», continua, «e non sai se ridere o piangere». Un dilemma che vorrebbe venisse affrontato da Xi Jinping e dai suoi colleghi del Comitato Permanente del Politburo, specie se davvero vogliono che il paese si trasformi da maggiore mercato di Hollywood in esportatore di cinema.