Si chiama radiologia interventistica ed è una tecnica che può sconfiggere cancro, patologie vascolari ?e ortopediche, tiroide e diabete. Utilizza raggi, sonde, ultrasuoni e cateteri ed evita al paziente gli interventi invasivi. Ecco come funziona

Un’accòlita di carbonari. Di giovani che si danno da fare per avere il loro quarto d’ora di notorietà, per acchiappare posti letto, finanziamenti, personale e tutto il necessario per diventare i baroni di domani. Li vedono così, quei colleghi che baroni già lo sono, che i posti letto già li hanno e diffidano di una nuova disciplina. Finendo così per ostacolare il progresso.

È una vecchia brutta abitudine radicata da sempre negli ospedali italiani quella che male accoglie i primi veri grandi exploit della radiologia interventistica, disciplina sconosciuta ai più, medici di medicina generale compresi, e assente dall’elenco delle specialità. Ma capace oggi di curare moltissimi pazienti affetti dalle più diverse malattie, consentendo di evitare interventi invasivi, e di trattare casi un tempo giudicati senza speranza: dall’oncologia alla cardiochirurgia, all’ortopedia, alla terapia della tiroide.

Le prove scientifiche ci sono, i casi di persone trattate e guarite con queste tecniche aumentano, anche nel nostro paese; e già nel 2009 l’Unione europea ha dichiarato che la radiologia interventistica è una disciplina a sé, che necessita di regole sue e training specifico.

Eppure, quando gli italiani, pochi mesi fa, hanno fondato la Società Italo-Europea di Radiologia Interventistica, subito riconosciuta dalla consorella Società europea di Radiologia Interventistica, l’hanno fatto tra mille difficoltà, ostracismi, boicottaggi da parte di quell’establishment che fatica ad aprirsi alle evoluzioni della medicina moderna, difendendo rendite di posizione spesso anacronistiche. Nonostante diverse analisi economiche abbiano ormai mostrato la vera cartina al tornasole del fatto che questa disciplina rappresenta, insieme ad altre, il futuro: il fiume di denaro che sta andando in quella direzione. Secondo un rapporto stilato dall’Istituto americano Med Market Diligence, tra il 2009 e il 2019 gli investimenti, solo negli Stati Uniti e solo in ambito oncologico, triplicheranno, arrivando a oltre 27 miliardi di dollari, contro i 7,5 del 2011 e i 12,4 del 2016.

Una montagna di soldi, ma per fare cosa? Spiega Franco Orsi, direttore di uno dei pochissimi reparti di Radiologia Interventistica d’Italia, quello dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, e tra i fondatori della nuova Società: «La radiologia interventistica, avvalendosi di sistemi di imaging sempre più sofisticati, riesce a intervenire in maniera mininvasiva laddove un tempo si arrivava soltanto aprendo il paziente, e in situazioni nelle quali il chirurgo tradizionale non può operare perché il rischio è troppo elevato. Per esempio, riesce a eliminare masse tumorali, o a curare patologie dei vasi o, ancora, a ridurre o eliminare noduli e formazioni benigni che un tempo andavano asportati per via chirurgica, o a riparare vertebre e dischi. Nei primi anni della sua storia, veniva impiegata soltanto a scopo palliativo, cioè per arrestare l’evoluzione di una malattia e togliere, quando possibile, i sintomi dolorosi, ma da tempo non è più così, e oggi è centrale nella cura di moltissime patologie».

Per curare con la radiologia, però, non basta una sola competenza: bisogna infatti sapere utilizzare tutti gli strumenti diagnostici e terapeutici che impiegano mezzi di contrasto, raggi, ultrasuoni, cateteri, sonde, protesi; e bisogna avere una buona abilità manuale oltre che una formazione chirurgica. Stanno così comparendo nuove figure professionali iperspecializzate e dotate di competenze trasversali a diverse discipline; nuovi medici che devono essere adeguatamente formati con scuole di specialità e percorsi formativi oggi assenti. Così come stanno nascendo nuovi reparti ospedalieri, dove il paziente sia seguito dalle fasi precedenti l’intervento a quelle successive da un team multidisciplinare che lo conosce, lo valuta, decide come è meglio intervenire e poi spesso lo fa, quando è il caso, in maniera ibrida, cioè unendo diversi approcci nelle fasi dell’intervento. Gli ambiti nei quali la radiologia interventistica è maggiormente applicata oggi sono due: quello cardiovascolare e quello oncologico, anche se non sono certo gli unici. Vediamo allora nel dettaglio le novità.

SOTTILI COME DI VASI DEL SANGUE. L’apertura di coronarie e altri vasi tramite i palloncini, il posizionamento degli stent, la sostituzione delle valvole cardiache attraverso l’arteria femorale sono stati tra i primi interventi che, a partire dagli anni Ottanta, hanno rivoluzionato la cardiologia, grazie allo straordinario potere diagnostico di esami come la coronarografia, l’angio Tac, la Tac unita alla fluoroscopia: non più aperture del torace, interventi a cuore aperto di 5-6 ore, ma piccole incisioni in una gamba in interventi di un’ora, con crollo delle complicanze postoperatorie, delle infezioni, dei giorni di degenza, della mortalità.

E, spiega Fabrizio Fanelli, del Dipartimento di Fisiopatologia Cardiovascolare, Anestesia e Chirurgia Generale del Policlinico Umberto I di Roma: «Oggi, sempre entrando dall’arteria femorale, riusciamo a curare anche le malattie dei vasi che un tempo si potevano trattare solo chirurgicamente come una parte degli aneurismi e delle dissezioni dell’aorta, comprese le più complesse e, quando c’è la giusta organizzazione, quelle sulle quali si deve intervenire in urgenza. Il segreto sta nelle cosiddette endoprotesi, cioè dispositivi che si introducono tramite l’arteria femorale e che vanno a riparare e sostenere un vaso che sta per rompersi, o che ha iniziato a farlo. Le endoprotesi, giunte ormai alla terza o quarta generazione, sono realizzate con materiali biocompatibili, e sovente non richiedono cuciture ma solo un corretto posizionamento. Il paziente resta solo 1-2 giorni, e poi torna a casa, con un rischio minimo di complicanze post chirurgiche».

Per capire che cosa significhi questa rivoluzione, basta pensare alla personalizzazione degli interventi: tutta l’anatomia della zona del singolo paziente viene valutata nei minimi particolari, grazie alle straordinarie risoluzioni offerte dagli esami eseguiti con mezzo di contrasto, e le endoprotesi vengono poi modificate per la specifica situazione. Una volta inserito il dispositivo, il paziente viene invitato a effettuare controlli periodici (ogni anno, o più a seconda dei casi) anche se, teoricamente, nella maggior parte dei casi ha risolto il problema in maniera definitiva. Negli ultimi tempi, inoltre, sono stati proposti anche dispositivi che rendono le procedure ancora più sicure come quelli che chiudono l’arteria femorale dopo l’intervento, atto oggi quasi sempre delegato alla compressione manuale.

Ma è la radiologia interventistica che sta assumendo un ruolo fondamentale anche nel trattamento di una condizione sempre più diffusa, con l’avanzare dell’età media e delle malattie del metabolismo legate all’eccesso di peso e alla sedentarietà: il diabete di tipo 2. Ancora Fanelli: «Il diabete tende a evolvere e a compromettere la circolazione periferica, fino a rendere necessario l’intervento per trattare le ulcere e poi, spesso, l’amputazione del piede: oggi noi riusciamo, con opportune tecniche, a ripristinare il microcircolo e a salvare l’arto. E lo stesso si riesce a fare per altre condizioni che mettono a rischio i vasi piccoli e piccolissimi. Si tratta di procedure ad altissima specializzazione, che hanno però costi infinitamente minori rispetto a quelli degli interventi tradizionali. Ma soprattutto permettono di evitare molto spesso le condizioni di invalidità che queste patologie portano con sé».

In futuro, poi, con le tecniche di radiologia interventistica si potrà fare ancora di più: si sta sperimentando la termoablazione (la bruciatura) di alcune arterie renali per sconfiggere l’ipertensione che resiste al trattamento farmacologico, altra condizione sempre più diffusa, pericolosa e costosa; che spesso conduce a infarti e ictus. E si stanno studiando interventi per riaprire le arterie laddove siano occluse, sempre con lo scopo di abbassare la pressione; in particolare si potrà intervenire anche sulle arterie carotidi del collo, che tendono a calcificare e a chiudersi, e che possono essere a loro volta rimesse in funzione con uno stent.

CONTRO IL CANCRO. La radiologia interventistica è stata introdotta in oncologia a scopo palliativo, ma oggi sta assumendo sempre più una funzione terapeutica. Perché a volte bruciare con la radiofrequenza o il calore, o far morire con l’embolizzazione (l’introduzione di materiale chimico inerte) dei vasi circostanti una massa sorta in un’area delicata, o difficile da raggiungere chirurgicamente, può portare a un effetto molto più risolutivo rispetto a ciò che si può ottenere con un bisturi. Spiega Orsi, che tratta centinaia di pazienti all’anno: «I tumori nei quali abbiamo raggiunto i maggiori successi sono quelli del fegato, sui quali si interviene ormai molto precocemente, e che spesso non sono operabili per via chirurgica, quelli del rene, che fino a poco tempo fa comportavano quasi sempre l’asportazione dell’organo, quelli del polmone sui quali, com’è noto, la chirurgia tradizionale non è efficace come vorremmo, ed è molto invasiva, quelli del pancreas, anch’essi un tempo quasi del tutto privi di terapie realmente utili, e quelli delle ossa, tra i più difficili da operare tradizionalmente, ma sono in studio anche tecniche per la mammella e per altre sedi».

Dati recenti mostrano che oggi questo tipo di interventi ha spesso un tasso maggiore di successi e porta a una sopravvivenza più lunga, anche su pazienti considerati non operabili o comunque più a rischio rispetto alla media. Il tutto, anche in questo caso, gravato da complicanze postoperatorie, rischio di infezioni ospedaliere, necessità di nuovi ricoveri e mortalità molto minori. Si riescono poi a trattare tumori che resistono alla radioterapia, e a eseguire biopsie poco invasive, percutanee, che molto spesso consentono di ridefinire dal punto di vista biologico la natura della massa.

IN SALVO LA TIROIDE Uno degli ambiti nei quali la termoablazione dà risultati ottimi, evitando il ricorso al bisturi, è quello dei diffusissimi noduli tiroidei: in un intervento che non lascia segni e che dura poche decine di minuti, il nodulo, che è di natura spugnosa, viene bruciato; dopo poche ore il paziente viene rimandato a casa. Il tessuto morto viene riassorbito, e il nodulo tende a scomparire.

Un altro settore molto importante, e il cui destino è di diventarlo sempre più, a causa dell’invecchiamento della popolazione, è quello ortopedico: le tecniche radiologiche permettono oggi di fare iniezioni di cementi biocompatibili per i crolli vertebrali e per molti tipi di interventi che richiedono ricostruzioni della colonna un tempo possibili sono con delicatissime, lunghissime e pericolose operazioni.