Un rapporto a distanza che dura da decenni. E che adesso sfocia in un disco, meditato da tanto tempo. In questo colloquio con "l'Espresso" il cantautore romano spiega come e perché ha voluto rendere omaggio al grande mito della sua vita

Dov’è finito l’artista schivo e riservato di una volta? Da qualche tempo in qua Francesco De Gregori ha cambiato marcia. In meno di quattro anni, mentre nel frattempo Fossati e Guccini chiudevano bottega, il cantautore romano ha messo a segno una raffica di colpi degni di Flavia Pennetta: un nuovo album d’inediti, “Sulla strada” (2012), un audiolibro in cui legge “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad (2013), un film autobiografico, “Finestre rotte”, presentato al Festival di Venezia nel 2014, seguito a ruota da un doppio cd, “VivaVoce”, con i classici del suo repertorio arrangiati in modo del tutto nuovo. Poi, giusto un mese fa, all’Arena di Verona ha festeggiato i 40 anni di “Rimmel” circondato dall’affetto di tanti amici musicisti, in un tripudio di omaggi e duetti. Tralasciando i tour, che nel frattempo proseguono senza sosta, a sorprendere è soprattutto il nuovo atteggiamento.

Prima diceva sempre no, ora invece De Gregori dice sì (quasi) a tutto. Lo vedi che scherza con Checco Zalone, che appare spesso in tv e, cosa impensabile un tempo perfino nei talent show. Superata la paura del successo, ora sembra abbia deciso di goderselo e di divertirsi. L’ultimo regalo che si è fatto si chiama “Amore & Furto - De Gregori canta Bob Dylan”, un tributo al suo mito di sempre con undici canzoni che ha tradotto lui stesso in italiano. Abbiamo incontrato l’artista nel suo studio romano e qui, tra le sue chitarre e il fumo delle Gitanes ci ha raccontato perché, dopo aver metabolizzato ogni sua fibra poetica e musicale, ha deciso di confrontarsi finalmente con la leggenda e di sfornare il disco che ha meditato da una vita.
 
Perché questo disco proprio ora? C’è voluto un tempo lungo per trovare la giusta distanza dal Mito?
«Spesso si è ironizzato sul fatto che Bob Dylan sia sempre stato per me un modello. Certo, rinfacciarlo a uno che di mestiere scrive canzoni, è come dirgli: allora tu non ti sei inventato niente. Ho risposto che chiunque abbia scritto canzoni in questi ultimi cinquant’anni è difficile non ne sia stato influenzato, dunque non c’è da vergognarsi, ma ammetto di aver provato, a volte, un certo disagio. Ora mi sono liberato e posso dire: sì è vero, lui è il mio guru».

Madame Bovary c’est moi…
«È così, e adesso lo traduco pure, non ho più paura della sua ombra».

Però è stato lei il primo a dichiarare la “provenienza” dylaniana di “Buonanotte fiorellino”, che avevi gli stessi accordi di “Winterlude”.
«Già, e allora tutti a dire: “De Gregori copia Dylan…”. Ora il cerchio si chiude, questo disco è un gioco di specchi tra me e lui».

“Amore e Furto” è lo stesso titolo dell’album del 2001 in cui Dylan ammise il suo amore predatorio per una serie di altri artisti...
«Tutto è copiato, tutto è riproposto. Accade in qualsiasi tipo di arte e nel rock è ancora più evidente. Guai all’artista che non ha dei modelli e che non li saccheggia. Attaccarsi all’idea del plagio e del prelievo come una colpa per chi scrive, per chi fa un film o una canzone è un concetto totalmente sballato. Una canzone, come una poltrona, sarà sempre assimilabile al modello di cinquant’anni prima, l’importante è che sia comoda e che sia bella. Quelli che dicono, “La grande bellezza” è copiata dalla “Dolce vita”, non li sto neppure a sentire».

Fatti i debiti distinguo, le vostre strade sembrano aver marciato in parallelo: sie lei che Dylan avete esordito negli ambienti del folk, subìto analoghe contestazioni a ogni mutamento di rotta, condiviso la stessa voglia di cambiare infischiandovene di quello che il pubblico si aspetta, mentre ora, in tarda età, state sempre in tour passando la vita sulla strada.
«Senza dubbio dei punti di contatto ci sono: la bulimia per i concerti ad esempio. La differenza è che vivendo in Italia e non negli Usa io non posso permettermi di fare 250 date l’anno, ma forse non li farei comunque considerando che ho una famiglia, mentre il nostro Bob potrebbe far pensare a uno che ha perduto la strada di casa. Quanto a seguire il proprio estro, fregandosene… beh, questo è successo anche a me, ma più per un fatto di carattere che per spirito d’imitazione».

L’album si apre con “Sweetheart Like You”, titolo tradotto molto liberamente con “Un angioletto come te”.
«Il termine, “Sweetheart”, significa “amore”, “dolcezza”… ma qui è usato con un certo sarcasmo. Il Nostro parla a una donna che sta tradendo il marito e che il giorno dopo dovrà raccontare un sacco di balle per nascondere la sua scappatella, quindi “Cosa ci fa in un posto così un angioletto come te?” mi è parso rendesse l’ironia».

La lingua di Dylan non è facile. Un’eccellente traduttrice come Delfina Vezzoli sostiene però che per tradurre un artista che ami e capisci devi solo inventarti una lingua “sua” nella “tua” lingua che respiri con gli stessi polmoni, seguendo gli stessi battiti del cuore. È così semplice?
«Chi traduce prosa non ha il problema della cantabilità, la differenza fondamentale è questa. Se una canzone suona bene in inglese quando la vai a cantare deve suonare bene anche in italiano, quindi oltre a rispettare il significato, il ritmo e la metrica del verso, devi ritrovare la musicalità complessiva. Un’impresa tutt’altro che facile».

Si è molto discusso se Dylan sia un misogino e della sua tendenza a colpevolizzare la donna di ogni fallimento sentimentale. Un critico, riferendosi a certe sue ballad le ha definite «canzoni di non-amore». Che ne pensa?
«Penso che racconti la sofferenza provocata dalla perdita e dal non capirsi più e che lo faccia con un’intensità lirica straordinaria. Non si può giudicare un artista con il metro del “politically correct”, altrimenti poi leggi “Otello” e pensi che Shakespeare sia un maschilista, oppure “Madame Bovary” un libro anti femminista».

Perché la scelta di una canzone come “Series of dreams”?
«Dylan ha dedicato molte canzoni ai sogni, ma questa la amo in modo particolare, la considero una canzone anti freudiana. È come se Dylan ci dicesse: guardate, non ho la pretesa di capirli né d’interpretarli, “Sto solo pensando una serie di sogni”. Lo trovo bellissimo! Senza negare l’importanza della psicoanalisi, credo che il sogno e tutto ciò che riguarda la vita spirituale non si possa spiegare solo in termini razionali e illuministici».

In genere, si tende dare grande importanza ai suoi testi: pochi hanno notato che le canzoni sono costruite partendo dal suono, in questo senso direi che con la band avete fatto un magnifico lavoro.
«Da subito, con Guido Guglielminetti e gli altri della band ci siamo imposti la massima fedeltà agli arrangiamenti originali, ed è stato molto divertente e istruttivo. Capire in che modo un produttore come Daniel Lanois abbia ottenuto quel particolare suono della chitarra e rifarlo, è come smontare il motore di una Ferrari e vedere cosa c’è dentro. Quello che mi affascina di un disco è innanzi tutto il suono. Nel 1966, quando uscì “Highway 61 Revisited”, fu uno shock: avevo quindici anni, il mio inglese era scarso e quindi capivo poco le parole, ma il suono mi lasciò a bocca aperta. Ogni tanto mi dicono che sono un poeta, pensano di farmi un complimento, ma senza la musica non arrivo da nessuna parte e secondo me, nemmeno il nostro Bob».

L’ultima traccia di quell’album leggendario è “Desolation Row”, lo sterminato affresco anti-epico che con Fabrizio De André all’epoca avete tradotto con “Via della povertà”.
«Fabrizio s’innamorò di quella magnifica canzone quando venne a sentirmi al Folk Studio. Mi chiese se potevamo rimetterci le mani e che pensava di cantarla nel suo prossimo album. Ne fui lusingato, De André per me era un mito. Riascoltandola mi sono reso conto che all’epoca, travolto dall’irruenza creativa giovanile, mi ero preso diverse licenze e addirittura inserito personaggi che non esistevano come il dottor Jekyll e Mr. Hyde, i re magi e Gesù bambino. Adesso l’ho tradotta di nuovo in modo più aderente all’originale».

Dylan ha sempre ripetuto: non pretendete che faccia anche politica o che risolva i vostri problemi. “Mondo Politico” (“Political World”) però parla di questo, anche se nessuno ha mai capito lui da che parte sta...
«Dylan non si è mai schierato, neppure ai tempi della sua militanza e a questo si deve la rottura con Joan Baez. Anche “Blowin’ in the Wind” a pensarci è piuttosto vaga. Qui lui esprime tutto il suo scetticismo nei confronti della politica. Ognuno al riguardo può avere delle soluzioni o delle speranze, ma se osservi quello che sta accadendo nel mondo, non puoi che registrare il fallimento della politica».

Una volta vi siete incontrati: di persona che tipo è?
«Ci presentò David Zard, il promoter del tour, nel 1984. Il nostro fu un incontro formale, breve, cordiale. David gli disse che io ero un suo grande fan e che lo consideravo un mito, Dylan con un sorrisetto disse che è sbagliato avere dei miti. Conservo il ricordo del suo sguardo magnetico e l’impressione di un uomo di straordinario carisma».

Sembra il racconto di un qualsiasi fan: ma in una recente canzone, “Guarda che non sono io”, lei confessa di provare un certo fastidio per le attenzioni dei fan...
«Ho voluto semplicemente esprimere il disagio che provo quando qualcuno pensa di sapere tutto di me solo perché conosce a memoria le mie canzoni o ha letto un’intervista. È un meccanismo di appropriazione. Anch’io sento che certi musicisti mi appartengono, ma una cosa è appropriarsi dell’artista e una cosa diversa farlo con una persona. La canzone dice questo».

Todd Haynes, il regista di “Io non sono qui”, il film che racconta sua vita di Dylan, ebbe l’idea di affidare il ruolo principale a sei attori diversi, uno per ogni fase della sua carriera. Insomma, Dylan un po’ Zelig e un po’ Pirandello: condivide questa interpretazione?
«Non penso che sia una specie di Zelig, ma un artista che è sempre riuscito a non farsi incapsulare dalle etichette che gli sono state appiccicate addosso. La sua sola colpa è avere accettato cha la vita è cambiamento, libero di convertirsi al cristianesimo, di imbracciare la chitarra elettrica, di cantare Frank Sinatra e di non eseguire “Blowin’ in the Wind” come faceva cinquant’anni fa. Quello sarebbe il vero tradimento. Onestà, per chi fa il mestiere dell’artista, vuol dire farti ascoltare come canti adesso e interpretare una vecchia canzone seguendo il battito del tuo cuore. È una regola d’oro anche per me».

L’ultima traccia dell’album s’intitola “Dignity”. Perché è proprio alla fine?
«È una canzone che parla della dignità, un valore importante, ma certo non dei più gettonati nel discorso pubblico. “La dignità non si fa fotografare”, recita un verso. Mi sono chiesto perché. Mi sembra che il Nostro qui parli molto di se stesso, rivendicando la dignità dell’arte. Devo ammettere, comunque che cercare di afferrarne la complessità è un’impresa da pazzi, del resto Dylan è un artista mercuriale, si sposta continuamente e non sta mai nel posto in cui pensi di trovarlo».