15 milioni di abbonati, 20 mila nuovi brani al giorno. E ora ?lo sbarco sulla Playstation. Così il sito svedese ?sta conquistando il mondo
Sessanta milioni di utenti in 56 paesi, 15 milioni di abbonati premium, 20 mila nuove canzoni al giorno. Sono i numeri di Spotify, la più grande piattaforma di musica in streaming del mondo, fondata nel 2008 in Svezia da Daniel Ek e Martin Lorentzon. Ma l’azienda intende raggiungere 40 milioni di iscritti a pagamento entro i prossimi cinque anni e non è un traguardo irraggiungibile: secondo le stime dell’istituto finanziario Credit Suisse, gli abbonamenti ai servizi di musica in streaming (non solo Spotify) cresceranno infatti dai circa 20 milioni attuali a 150 milioni entro il 2025, e potrebbero bastare due anni perché i dati di streaming sorpassino i numeri della vendita di dischi. Ancora: l’ultimo rapporto dell’Ifpi (Federazione Internazionale dell’Industria Discografica) stima un calo dell’11 per cento nella vendita di dischi e del 2 per cento nella vendita dei download del 2, mentre lo streaming cresce del 51. In Italia, secondo i recenti dati della Fimi (Federazione industria musicale italiana) il segmento digitale della musica occupa oggi una fetta del 38 per cento, sei punti in più rispetto al 2013.
Ma questa è solo la punta dell’iceberg: «Per la prima volta», dice il Ceo di Spotify, Daniel Ek, «la musica è un mezzo audiovisivo e interattivo. Spero che il nostro contributo non sia solo su come le persone consumano la musica, ma su come la si crea. Questo ha un impatto sulla cultura molto maggiore».
A cambiare, già ora, sono la forma album e le tempistiche di pubblicazione: sulla piattaforma, per esempio, funziona sempre più l’ascolto delle playlist, che sono raccolte di canzoni di generi e autori diversi accomunate secondo varie etichette (musica per dormire, per fare l’amore, per viaggiare etc). E il concetto di playlist è solo uno dei tanti modi in cui Spotify ha iniziato a cambiare la maniera in cui si pensa e consuma la musica. O meglio: come la pensano e consumano i giovani del 2015, i cosiddetti “millennial”, nati dalla fine degli Anni Ottanta in poi. «In tanti fra loro sono abituati a non pagare per ascoltare la musica», spiega Marine Elgrichi, responsabile comunicazione di Spotify per il Sud Europa. «È la generazione cresciuta con la pirateria, ma noi li stiamo portando dentro un sistema legale».
La domanda allora è: come convincere questi millennial a pagare un abbonamento, invece di scaricare la musica gratis? La recente ricerca della piattaforma di marketing sociale Crowdtap indica che i giovani tra i 18 e i 36 anni trascorrono circa 18 ore al giorno sui media. Di queste, ben 5 ore vanno agli “user generated content”, cioè contenuti creati e condivisi dai loro coetanei, dai loro pari, su Internet e i social network (dove passano il 37 per cento del loro tempo dedicato ai media). Questo tipo di contenuti, stima il rapporto, è il 20 per cento più influente di quelli tradizionali (anche nel condizionare gli acquisti) e gode del 50 per cento di fiducia in più.
È in questo segmento che Spotify prospera: non limitandosi a essere una piattaforma di distribuzione, ma fornendo un’esperienza molto vicina a quella di un social network. «Spotify è un ecosistema», spiega Elgrichi, «e la maggior parte dei nostri iscritti ha meno di 27 anni». Per questo Spotify cerca di dare ai propri utenti la maggiore libertà possibile: di creare contenuti assemblando playlist, condividendo quelle altrui, seguendo i propri artisti preferiti ma anche quelli più amati da amici e conoscenti. Il livello di coinvolgimento è molto alto: in media gli utenti passano 100-120 minuti al giorno ascoltando musica su Spotify. E così, nonostante i dischi non si vendano più, si consuma molta più musica oggi che negli anni Settanta.
È un’esperienza, quella creata da Spotify, tanto individuale quanto sociale. Perché se è vero che la musica si condivide fra utenti, la scelta delle canzoni si basa sulle nostre preferenze personali. Dietro il successo dell’azienda svedese c’è quindi un enorme lavoro di analisi dati: nel 2014 Spotify ha rilevato la start-up di analisi dati Echo Nast, che è andata ad irrobustire il servizio in house Truffle Pig. Così si analizzano i gusti di ogni utente e su questi dati Spotify costruisce dei “cluster” di generi e sottogeneri musicali, che permettono di suggerire la musica preferita.
Ma i dati poi servono anche agli artisti, che nel loro profilo hanno a disposizione un dahsboard (un pannello di controllo) che permette loro di scoprire tante cose, proprio come succede agli amministratori di un sito Web aggiornato o di una pagina Facebook. Così ogni autore può sapere quale brano piace di più e a chi: per genere, età, luogo. Se un cantante vede dai dati del dashboard che lo ascoltano principalmente a Milano e Roma, in quelle città farà le tappe del suo tour, ad esempio.
Il grande vantaggio di Spotify finora è stato tecnologico. Nessuno sembra essere in grado, al momento, di offrire una migliore “esperienza per l’utente”. Basta un clic per entrare in un catalogo sterminato di musica, un altro clic per selezionare il genere preferito o la playlist adatta al momento. Ora in realtà non serve nemmeno più il clic, perché Spotify ha introdotto la funzione “touch”: si sfiora con un dito la copertina di un album per sentire l’anteprima delle canzoni.
E i millennial vogliono la propria musica ovunque: in macchina, sul cellulare, alla tv, mentre videogiocano. Per questo l’azienda ha appena concluso un accordo commerciale con Uber, l’azienda di auto a noleggio via smartphone, per suonare le playlist del passeggero durante la corsa. È arrivato poi anche un accordo con Sony per le musiche sulla Playstation, dove i ragazzo trascorrono molto del loro tempo libero.
Le possibilità sono quasi sterminate, nello streaming musicale. Non mancano, quindi, i concorrenti: Apple intende integrare il servizio di musica streaming Beats - acquistato per 3 miliardi di dollari - nel sistema operativo dei prossimi iPhone, Mac e iPad. E Google - proprietaria di Youtube - sta sviluppando il servizio a pagamento Youtube Music Key.
Spotify, però, sembra avere un vantaggio considerevole. Con la capacità di analisi dati, un prodotto senza sbavature, la fiducia degli under 30 e le nuove possibilità per gli artisti, quindi per l’industria. «Non siamo nel business della musica», ha detto Daniel Ek al “New Yorker”: «Siamo nel business del momento».