
Contrariamente a quanto si è a lungo pensato, l’abitudine a leggere i giornali non cresce in maniera significativa con l’età. Agli albori di internet la frase ricorrente degli editori era: dobbiamo catturare i giovani sul web perché poi, crescendo, diventeranno futuri lettori dei giornali. Niente di più errato. Lo storico dei media David T. Z. Mindich ha dedicato un libro alla smentita di questa tesi (“Tuned Out. Why Americans Under 40 Don’t Follow the News”, Oxford University Press 2005). I dati raccolti da Mindich portano a una conclusione per niente incoraggiante: «L’abitudine a leggere i giornali tipicamente si acquisisce tra i 20 e i 30 anni, o non si prenderà più». Se guardiamo alla generazione dei “Millennials”, chi avrebbe oggi ancora l’ardire di sostenere che saranno i futuri lettori dei giornali?
Cosa è successo? Abbiamo intrapreso un salto culturale e tecnologico: dalla società industriale siamo approdati alla società della conoscenza. Le informazioni, che erano un bene scarso e quindi ad alto valore, sono entrate nell’era dell’abbondanza. Il tempo ha fatto un percorso opposto: dall’abbondanza alla scarsità. Con internet ci siamo scoperti più impegnati, ma anche più distratti. «Le azioni nel mondo connesso», ha notato il filosofo Zygmunt Bauman, «sono nettamente più veloci e vantaggiose di quelle che impone la vita nell’universo disconnesso». E in questo mondo iper-connesso, secondo le più recenti statistiche, un individuo medio trascorre circa nove ore del suo tempo quotidiano. Ma a beneficiare di questo tempo non i sono i tradizionali mass media, superati dalle nuove piattaforme di condivisione, da Facebook a Twitter. Questo radicale cambiamento ha un nome: condivisione.
La vecchia struttura dei mass media, gerarchica e verticale, funzionava con una distribuzione da uno - radio, televisione, giornale - a tanti. Il nuovo ecosistema dell’informazione basato su internet lavora invece in modo orizzontale e meno gerarchico: da molti a molti. La condivisione è lo strumento di questa nuova catena del valore. «L’aspetto più rilevante della sharing economy e della condivisione», afferma Alan Mutter, esperto di nuovi media e docente all’Università di Berkeley, «è il consistente ammontare di fiducia che le persone sono disposte ad accordare su internet a totali sconosciuti. Questa forte fiducia porta ad accettare notizie, informazioni ed analisi proposte da chiunque».
L’aspetto positivo di questo nuovo assetto è evidente: «L’apertura del mondo digitale permette a più persone l’accesso a più informazioni provenienti da più fonti: nella storia dell’umanità, non abbiamo mai imparato tanto come oggi». Ma Mutter coglie anche un altro aspetto, meno entusiasmante: «In molti casi la fiducia verso internet è utilizzata da alcuni individui per creare scetticismo verso le notizie prodotte dalle fonti tradizionali. Ciò ha comportato una perdita di fiducia verso la stampa rispetto a 10 o 20 anni fa». Paradossalmente, tutti sembrano aver beneficiato della fiducia verso internet tranne i media tradizionali. Come se la condivisione tra pari di singoli contenuti ispirasse più fiducia della visione del mondo preconfezionata dai cosiddetti (presunti) “poteri forti” dell’informazione.
Il fatto è che prima di internet gli editori controllavano tutta la catena industriale del giornalismo, produttiva e distributiva. Col web i lettori, l’audience o il target passivo nelle teorie dei mass media, sono diventati anche produttori di contenuti e, grazie alle grandi piattaforme di condivisione, distributori di news. Come ha sottolineato Clay Shirky, studioso di effetti sociali ed economici di internet e autore di “Here Comes Everybody” (The Penguin Press 2008), «Il web non ha introdotto un nuovo competitor nel vecchio sistema dei media: il web ha creato un nuovo ecosistema dell’informazione».
La condivisione è senza dubbio uno dei regali di maggior valore portati da internet. Ma è anche uno dei passaggi più delicati che editori e giornalisti stanno affrontando. Come Shirky ha sottolineato, «Le rivoluzioni non accadono quando la società adotta nuove tecnologie, avvengono quando la società adotta nuovi comportamenti». E i nostri comportamenti sono cambiati.
Le piattaforme di social network stanno crescendo e, insieme ad esse, sta crescendo il consumo di news. Il 66 per cento degli americani adulti utilizza Facebook e il 41 per cento di loro trova qui le notizie che legge abitualmente. Su Twitter le cifre sono inferiori, ma significative: uno su dieci legge le notizie attraverso la piattaforma. Tutto questo costituisce una incredibile concentrazione di potere. Una concentrazione che si è sempre cercato di evitare, con interventi normativi e risultati alterni, nell’editoria.
Il tempo che gli utenti trascorrono su queste applicazioni, soprattutto attraverso gli smartphone, cresce in maniera molto più significativa di quanto non aumenti il tempo speso dai lettori su siti e app editoriali. Restare ai margini del nuovo gioco vorrebbe dire perdere parte di questa immensa audience. Per questo appare difficile la scelta di non cedere alla lusinghe di Facebook che, forte di un miliardo e 400 milioni di utenti nel mondo (26 milioni in Italia), ha proposto agli editori di sperimentare “Instant Articles”, che permette agli utenti di fruire gli articoli direttamente sulla piattaforma.
La proposta è resa ancora più allettante dalle opportunità di monetizzazione: gli editori possono vendere direttamente la pubblicità sui propri articoli su Facebook, oppure lasciare che a farlo sia il network ricevendo in cambio una percentuale dei ricavi. I partner che stanno sperimentando il nuovo modello di distribuzione e fruizione delle news sono di primo piano: dal New York Times alla Bbc; da National Geographic a The Guardian e Der Spiegel. «Abbiamo una lunga tradizione di incontro con i lettori nei luoghi dove si trovano e questo significa anche essere disponibili non solo sui nostri siti, ma sulle piattaforme sociali frequentate da molti utenti attuali e potenziali del Times», ha spiegato Mark Thompson, presidente e amministratore delegato del New York Times. La sperimentazione sembra per il momento fornire dati incoraggianti: gli editori che hanno sottoscritto l’accordo registrano una crescita significativa di traffico sui loro contenuti.
Ma un invito a non abbassare la guardia viene da Emily Bell. Per il direttore del Tow Centre for Digital Journalism della Columbia University le perdite, alla fine, potrebbero essere più pesanti dei guadagni: «Cosa accadrà a quei valori del giornalismo che non concernono la crescita e i ricavi? Penso che Facebook e le altre piattaforme siano convinte di poter fare un miglior lavoro nella pubblicazione di quanto non abbia saputo fare l’industria editoriale. Ma il loro obiettivo principale non è il giornalismo». Il dubbio resta. Nella frammentazione del giornalismo condiviso chi garantirà trasparenza, qualità, imparzialità, il lavoro di intermediazione con le fonti? Un dilemma di non facile soluzione. Resta il fatto che, per la prima volta in 200 anni, gli editori non hanno più il controllo esclusivo su come le notizie vengono create e distribuite. Era la stampa, bellezza. Adesso è la condivisione, un altro mondo.