Tra kitsch e trash: il cattivo gusto è l'altra faccia del populismo
In politica e nello spettacolo spopola il cosiddetto “cattivo gusto”, che sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale
Donald trump è kitsch oppure trash? La casa dove vive, la Trump Tower, con i suoi arredi, i mobili, la camera da letto, i ninnoli del salotto, i sanitari, è kitsch o trash? E come sono i suoi vestiti, gli abiti della moglie e del figlio, la tinta dei capelli? E Beppe Grillo come lo si può definire dal punto di vista estetico: kitsch o trash? E il video del giapponese Pikotaro che, a tre anni dal precedente di “Gangnam Style”, sta collezionando milioni di visualizzazioni in tutto il mondo? Trash o pop-kitsch? Che rapporto c’è tra Pikotaro e Trump? Politica e spettacolo uniti nel trash? Per rispondere a questa domande bisognerebbe spiegare in cosa consistono categorie che riguardano il cosiddetto “cattivo gusto”, il quale sembra strettamente connesso con l’avvento dei populismi, e non solo. E che oggi, complici social e nuovi media, sembra l’unica estetica in grado di funzionare a livello globale.
Se Hermann Broch, lo scrittore e filosofo austriaco sfuggito al nazismo, spiegava ai suoi attenti studenti di una università americana che l’essenza del kitsch consisteva nello scambio tra una categoria etica e una estetica, oggi si potrebbe davvero dire lo stesso? E che ne è del “camp”, che Tommaso Labranca nel fondamentale “Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash” (Castelvecchi) uscito nel 1994, cartografia della nascente epoca berlusconiana, aveva descritto insieme al kitsch e al trash? Marx sosteneva che nella storia gli eventi si ripetono: la prima volta sotto forma di tragedia, la seconda di farsa. Ma forse non è proprio così. Siamo immersi in una farsa, che può evolvere in tragedia, e in tutto questo il gusto sembra avere un ruolo importante, o almeno fungere da indicatore e sintomo.
Secondo alcuni la parola kitsch deriverebbe dall’inglese sketch, “schizzo”, ovvero dalla consuetudine che avevano nell’Ottocento i turisti inglesi di comprare quadri e riproduzioni a poco prezzo nei mercatini; per altri invece verrebbe dal verbo tedesco kitschen: “raccogliere fango per strada”, o anche “spacciare mobili nuovi per antichi”, secondo una espressione usata nella Germania meridionale. Un novero di definizioni davvero inconsuete, che ci spingono a chiederci se il kitsch in definitiva sia sempre esistito o se invece sia solo il prodotto della modernità.
Nerone che suona la cetra contemplando l’incendio di Roma cosa è? Kitsch? Possibile. Di sicuro lo sviluppo industriale nel corso dell’Ottocento e del Novecento ha trasformato questo fenomeno di nicchia in una esperienza di massa. Abrahm Moles negli anni Settanta ha scritto che tre sono i fenomeni che producono il kitsch alla fine del XIX secolo: la predominanza degli oggetti, il culto della bellezza e il consumismo. Una miscela che fa deflagrare le categorie estetiche tradizionali. Milan Kundera nell’“Insostenibile leggerezza dell’essere” sostiene che questo kitsch è ciò che permette di eliminare dal campo visivo degli uomini tutto ciò che è intollerabile, inaccettabile. Il kitsch non sarebbe altro che la negazione della merda. Lo scrittore ceco parla della «dittatura del cuore» ed espone la teoria della «seconda lacrima»: il sentimento del sentimento che provoca commozione. Una falsa liberazione dagli impicci della vita quotidiana trasferita sul piano del gusto.
Nella seconda metà del Novecento il kitsch si è trasformato nella «grammatica culturale del ceto medio», sostiene Andrea Mecacci in “Il kitsch” (il Mulino). È quello che Dwinght McDonald ha chiamato “midcult”, oggi dominante anche in letteratura, per cui, scriveva negli anni Sessanta McDonald, “Il vecchio e il mare” di Hemingway è decisamente kitsch. Umberto Eco e Gillo Dorfles sono stati tra i più acuti studiosi del fenomeno; il primo si è occupato della cultura di massa in “Apocalittici e integrati” (Bompiani), uscito oltre cinquant’anni fa, mentre Dorfles ha pubblicato nel 1968 un libro fondamentale: l’antologia commentata “Il kitsch. Antologia del cattivo gusto” (Mazzotta).
Il “cattivo gusto” è diventato un linguaggio estetico autonomo da cui non si può più prescindere. Alla fine degli anni Sessanta, agli albori del postmoderno, perde la sua forma tradizionale, s’ibrida e si trasforma in pop-kitsch. La falsificazione, scrive Mecacci, diviene l’autenticità, il simulacro è l’archetipo e la copia il modello. Non è quello dei castelli di Ludwig in Baviera, e neppure i ristoranti e le stazioni di servizio di Los Angeles o gli alberghi di Las Vegas, o ancora Disneyland. Tutto può essere kitsch. In questo modo diventa un modello culturale. Sorge allora il “neo-kitsch”, come lo definisce Dorfles.
All’inizio degli anni Ottanta assurge poi a vero e proprio “metodo di lavoro”; il designer Alessandro Mendini lo chiama “progetto amorale”. Uscito dal limbo piccolo-borghese, dalla definizione limitante di “cattivo gusto”, s’impone attraverso il movimento Memphis di Ettore Sottsass come lo stile estetico del decennio. Lo stesso design Made in Italy dei due decenni precedenti, razionalista e calvinista, evolve verso questa modalità estetica che s’autorizza da sola. La formula la dà Robert Venturi, l’architetto di “Imparare da Las Vegas” (Quodlibet) del 1972: «Il meno è noia». Appare allora il trash che a metà dei Novanta Labranca definisce in modo icastico attraverso esempi tratti dalla televisione e dallo spettacolo.
Il diritto alla volgarità diventa nell’epoca berlusconiana un fatto assodato. La neo-televisione ne è il maggior diffusore mediatico. Anticipati dalla celebre battuta di Fantozzi («Per me... La corazzata Potiomkin… è una cagata pazzesca»), gli anni Novanta sono definiti da questa estetica che funge anche da categoria antropologica. A mettere in circolazione il termine è stato Warhol con il film da lui prodotto, “Trash”, girato da Paul Morrissey e interpretato da Joe Dalessandro: nel 1970. Mecacci ricorda anche l’altra straordinaria pellicola del decennio, “Pinks Flamingos” (1972) di John Waters, che però già inclina verso il camp. Labranca ha sintetizzato nel suo volume le cinque caratteristiche del trash: assoluta libertà del proprio gusto, contaminazione, incongruità, massimalismo, ed emulazione fallita. La nuova estetica se ne frega della cultura alta; non si misura più con lei, e usa la categoria della parodia per inglobare l’intero universo culturale tradizionale stravolgendolo. Il trash si sostanzia nell’appariscenza, nel gusto trasversale, nel “dire le cose in faccia”. In questo senso Trump è senza dubbio trash, anche se il gusto estetico che ostenta è piuttosto kitsch. Il trash è senza dubbio contagiato dal kitsch, che sembra possedere una forza estetica e pervasiva superiore.
E il camp? Risultato del dandismo ottocentesco, che ha avuto in Oscar Wilde il suo profeta, il camp esprime ungusto che ha pervaso molti aspetti dell’estetica contemporanea. La parola ha un’origine altrettanto incerta. Probabilmente viene dall’italiano “campeggiare”, termine usato per descrivere un attore che esagera sulla scena, che ha un rapporto privilegiato con il pubblico; oppure dal francese “se camper”, termine anche questo teatrale: vanità, eccesso nel presentare se stessi. Il camp appartiene in origine alla cultura gay, come ha spiegato nel 1964 Susan Sontag in “Note sul camp”: «Esprime una sensibilità, che ha la sua forma nell’eccesso, nell’innaturale, nell’artificiale». Si tratta di una forma d’estetismo, si pensi ai film di Almodóvar, che non punta sulla bellezza o il cattivo gusto, come il kitsch, bensì sull’artificio e la stilizzazione. Alberto Arbasino con “La bella di Lodi” ha scritto il romanzo del camp all’italiana e nel contempo ne è stato l’ironico fustigatore: camp al camp.Come spiega Fabio Cleto in “Pop Camp” (Riga, Marcos y Marcos), mentre il kitsch presuppone la negatività dell’oggetto, il camp fa collassare la relazione tra soggetto e oggetto. Trump e Grillo non potrebbero mai essere camp, non solo per evidenti forme di machismo, ma perché il kitsch che praticano contempla sempre un’idea di bellezza, da cui si discosta, rovescia, trasforma, ma alla fine comunque accetta. Il trash ne prescinde, e forse per questo è delle tre realtà estetiche la più fluttuante, la più incerta.
Ma cosa è diventato oggi il kitsch? Nel 2012 in una mostra allestita alla Triennale (“Kitsch: oggi il kitsch”, Editrice Compositori), Dorfles ha cercato di delineare in cosa consista oggi questa estetica. In un saggio di quel catalogo Fulvio Carmagnola sostiene che a dominare è oggi la performance, il passaggio dalla “contraffazione” alla “coazione”. I grandi sistemi mediali costringono i fruitori contemporanei nella camicia di forza dell’Arte: tutto è estetico e tutto è contemporaneamente kitsch. A dominare negli ultimi vent’anni è il godimento, una categoria che Immanuel Kant aveva escluso dal piacere estetico, ma che è diventata la forma pervasiva della attuale addiction.
Non si desidera più una “cosa”, oggetto o gadget. Fondamentale è il “come” desiderare. Il filosofo Slavoj Žižek sostiene che importa oggi «come godere»; è l’obbligo contemporaneo a godere che ha avuto in Berlusconi uno dei suoi principali aedi. L’oggetto in senso materiale, sostiene Dorfles, non è più il centro del kitsch attuale. Nell’epoca dei social network nell’area del kitsch, come del trash, fratello minore, entrano tutta una serie di performance sentimentali: la sincerità e l’autenticità diventano valori cui conformarsi. La contraffazione si trasforma, scrive Carmagnola, in coazione. Il sentimento evolve in “sentimentalità”, nel sentimento di secondo grado, e il campo estetico è divenuto immateriale, centro propulsivo del sistema produttivo attuale. Senza il kitsch nessuno sviluppo possibile? Ora che Trump è arrivato alla Casa Bianca c’è da rifletterci.