Il 16 dicembre del 1991 moriva l’autore di “Altri libertini”, “Rimini” e “Pao Pao”. Il ricordo appassionato di un amico, anche lui scrittore

Mio caro Pier,

ho una buona notizia da darti. Così buona da spingermi addirittura a scriverti una lettera, benché nutra qualche incertezza sull’indirizzo a cui spedire. Non ho invece nessun dubbio sul mezzo: niente email né sms né messaggi whatsapp, per non parlare di post sui cosiddetti social media. A parte l’età, che mi iscrive di diritto fra i consumatori di carta recidivi e dipendenti, per non dire tossici, tu te ne sei andato ormai venticinque anni orsono - accidenti! un quarto di secolo! - e cioè in un’era beatamente gutenberghiana. Perciò eccomi armato di carta, penna e francobollo - ma sul valore di quest’ultimo permettimi di sorvolare.

[[ge:espresso:visioni:cultura:1.291343:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.291343.1481897094!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]Dunque la buona notizia. Ricordi che negli ultimi tempi in cui eri vivo, autunno 1991, ripetevi spesso di non voler morire così presto perché altrimenti i libri di letteratura ti avrebbero ricordato, giusto in una nota a piè di pagina, come un minore padano? E ricordi che io, nella migliore versione stronza di me, ti rispondevo che non c’era da preoccuparsi, perché nessuno ti avrebbe ricordato? Sono sicuro che ci pensi ancora, e per diverse ragioni: compreso lo strazio di quegli ultimi giorni tremendi. A ogni modo la notizia, la buona notizia, è che ci sbagliavamo entrambi. Del resto, tu hai sempre avuto una deplorevole tendenza all’autocommiserazione e a me non è mai difettata la stronzaggine. E invece, lo sai come vanno le cose quaggiù: il mondo ama sorprendere. E talvolta non solo nel senso peggiore. Fatto sta che, girando un po’ l’Italia per presentare il mio ultimo libro - che parla e straparla di te, come parla e straparla anche del nostro amato Filippo e del Mariolàin, cioè il sottoscritto, come voi due mi chiamavate - ho scoperto che c’è un’intera generazione di giovani lettori, fra i venti e i trent’anni, che ti legge ?e ti adora.

Ergo: nessuno ti ha dimenticato e nessuno - almeno fra le persone con cui mi è accaduto di parlare nelle scorse settimane - ti considera un “minore padano”. Al contrario. A venticinque anni dalla tua dipartita, mi pare che la stima, l’affetto, direi persino l’identificazione in te e in ciò che hai scritto (mica tanti libri: “Altri libertini”, “Pao Pao”, “Rimini”, “Biglietti agli amici”, “Camere separate”, “Un weekend postmoderno” e “L’abbandono”, postumo) sono cresciuti spettacolarmente, quasi che la distanza e il tempo trascorso abbiano restituito spessore e complessità a un’opera che il pubblico dei lettori ha comunque amato fin da subito.

[[ge:espresso:visioni:cultura:1.291342:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.291342.1481896692!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]La critica no, lo sappiamo molto bene. La critica è stata insieme generosa (Geno Pampaloni) e terribilmente miope (Angelo Guglielmi). E tu ne hai sofferto come solo un ragazzo di provincia, fragile, insicuro e pieno di timidezza, poteva. Nessun riconoscimento importante, mai: né premi Strega né Campielli, macché, niente di niente. Però, per fortuna, i tuoi libri venivano letti e amati con una passione che usciva dal territorio della letteratura, per entrare in quello della mitologia. Bene: tutto questo continua, in maniera costante, come una corrente d’acqua che sparisce e riemerge, un bel fiume carsico di cui è difficile definire i contorni, un caldo flusso di interesse e amore per uno degli scrittori più autentici del nostro Novecento.

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'Ibiza la Loca': quando Pier Vittorio Tondelli ce la raccontava così
16/10/1987
Ecco perché, adesso che la data ?del 16 dicembre si avvicina, il giorno ?in cui te ne sei andato - una data che temo moltissimo, perché per me ha significato rinunciare in un colpo solo a te e a mia madre - sento moltiplicarsi gli appuntamenti che ti ricordano, non solo nella tua «piccola città, bastardo posto», come diceva la canzone, e cioè a Correggio, in Emilia Romagna, ma anche a Milano, a Bologna (ai Teatri di Vita) e in tanti altri luoghi della Penisola. Mentre il tuo editore, Bompiani, che per inciso da una decina di anni è diventato anche il mio, manderà in libreria una nuova edizione arricchita e pregiata del tuo ultimo romanzo, “Camere separate”. Il libro che - ricorderai anche questo - provocò un nostro litigio, pieno di mutria e risentimento. Perché io lo recensii su queste stesse pagine - insomma, sul “nostro” giornale, visto che è qui dentro che siamo cresciuti insieme - e il pezzo mi costò una tremenda angoscia, dato che quella storia parlava anche di me, del dolore per la perdita del mio amico Franco, e riviverlo attraverso le tue parole mi aveva letteralmente schiantato. ?Tu fosti felice del mio articolo. Ma poi, quando mi chiesero di scriverne un altro, questa volta per la rivista “Nuovi Argomenti”, allora diretta da Enzo Siciliano, e io rifiutai perché davvero ?non potevo, non ce la facevo, non potevo farcela, tu te la prendesti moltissimo, ?e io me la presi perché te l’eri presa. Cavolo, che ragazzini eravamo.

Tecnicamente, tu ragazzino lo sei ancora. Quindi, a tutti gli effetti, saresti autorizzato a farmi qualche dispetto, o a mettere il broncio perché magari adesso ho scritto delle inesattezze, o a non rispondermi al telefono perché offeso dai miei eccessi di ruvidezza calabra. D’altro canto, è da un pezzo che col telefono abbiamo difficoltà: tu devi aver cambiato numero e io da venticinque anni, dal 16 dicembre 1991, continuo a non avere campo. Come non bastasse, essendo intrappolato nella concezione del tempo lineare, continuo anche a incanutire inesorabilmente, in un modo tale ?che presto potrei candidarmi a essere tuo padre e non più il fratellino quasi coetaneo, molto correo e un filo incestuoso, che sono stato ?ai vecchi tempi.

Tu evidentemente dell’essere giovane - cioè di quella condizione che sta fra la santità e la buffonata - hai fatto il tuo stemma araldico. E non solo perché nei tuoi libri hai raccontato soprattutto storie di ragazzi felici e infelici, o perché ti sei occupato amorevolmente di quegli scrittori giovani e alle prime armi che, ai nostri tempi, l’editoria snobbava abbastanza (e così hai tenuto a battesimo Silvia Ballestra e Andrea Canobbio, Giuseppe Culicchia e tanti altri, tutti appena ventenni), ma perché tu stesso a soli trentasei anni hai chiuso la partita. Ti sei buscato la malattia più fetente e meno comprensiva dell’ultimo mezzo secolo e, nel giro di pochi mesi, non c’eri più, con tutto che sino all’ultimo, terrorizzati e incapaci di darla vinta alla realtà, ci siamo illusi che ?non sarebbe finita lì, che c’era ancora ?un pezzetto di strada da fare, tenendosi per mano.

Mio dolce, mio caro amico-complice-amante, le lettere troppo lunghe rischiano di essere sempre un guaio per chi deve leggerle. Perciò salto i convenevoli - immagino che nel posto in cui ti trovi siano ancora più irrilevanti che qui - e senza troppi giri di parole prendo commiato. Immagino pure che a occhio e croce dovresti passartela bene da quelle parti, comunque si chiami il boss locale: dopo tutto eri cattolico, ma ti intendevi anche di buddismo, induismo e altre religioni. Senza aggiungere che la tua innocenza era ben al di là di ogni credo. Suppongo che avrai già incontrato i nostri amatissimi Wystan Auden, Christopher Isherwood e Stephen Spender, oltre a Filippo che era il terzo lato del nostro triangolo felicemente scaleno. Salutali tutti da parte mia: presto o tardi, spero mi accetterete nel vostro club esclusivo. Per ora, mi pare di averti detto tutto. Anzi no, dimenticavo. Mi manchi. Molto.

Tuo

m.