Cominciò dal liuto arabo tradizionale. Oggi è un sofisticato musicista contemporaneo. Incontro con un artista che ancora crede nel dialogo culturale tra Oriente e Occidente

Anouar Brahem / Foto Luca d'Agostino
Se la Tunisia è un Paese piccolo, Anouar Brahem ha una grande anima. Non è uomo di politica attiva, ma la politica lo turba. Ce lo spiega in un francese così elegante e melodioso da sembrare un parigino di terza generazione. Invece il compositore e virtuoso dell’oud, il liuto arabo, nato a Tunisi nel 1957, dopo una parentesi giovanile a Parigi, è ritornato in patria. Grazie all’incontro, tanti anni fa, con il produttore-guru tedesco Manfred Eicher creatore della Ecm, etichetta leader mondiale per il jazz e la musica contemporanea, è diventato un protagonista delle sonorità trasversali di oggi.

Un artista - come si dice - di culto. In attesa di poterlo riascoltare in Italia, “l’Espresso” lo ha incontrato a Lugano, quando all’Auditorium Rsi, con il suo quartetto e l’Orchestra della Svizzera Italiana, ha suonato la sua ultima emozionante composizione, “Souvenance” (Ricordo), che incrocia sonorità mediterranee e orientali e incanta per le luminose tessiture, dalla circolarità quasi ipnotica.

Dopo la “rivoluzione dei gelsomini” del 2011, con la nuova Costituzione e le libere elezioni, lei ha vissuto tali scossoni da non riuscire quasi più a far musica. Ci sono voluti quattro anni per portare a termine “Souvenance”. Ce ne può parlare?
«Gli eventi in Tunisia e nel Maghreb sono stati un cataclisma. Il regime poliziesco, poi gli scontri, i morti, la fuga del presidente. L’esplosione delle speranze, con la libertà totale di espressione, e insieme dei timori. Abbiamo attraversato una situazione insurrezionale».

Esperienze forti, anche traumatiche. Incluso l’attentato al Museo del Bardo.
«Esperienze forti, sì, per tutta la nostra società civile. È nata una Costituzione progressista, votata a maggioranza sotto un governo di coalizione a guida islamista. A lungo mi è stato difficile concentrarmi sul lavoro musicale».

Oggi dove vive?
«A pochi chilometri da Tunisi. A Cartagine. Carthago».

La critica ritiene “Souvenance” una sintesi di vent’anni di ricerca musicale tra Oriente e Occidente. Un punto d’arrivo?
«Non penso. Per me il lavoro è ricerca continua. Ogni nuovo progetto è una sorpresa, amo sorprendermi di me stesso. Come ha scritto uno scrittore francese, avanzo un poco nella nebbia».

Com’è nata una composizione orchestrale, rispetto al suo quartetto abituale, con François Couturier al pianoforte?
«All’inizio pensavo che avrei scritto per il quartetto. Ma nel cominciare a comporre, i primi strumenti sono stati il pianoforte e l’orchestra ad archi, un’orchestra da camera. Ecco la sorpresa: perché io non vengo dalla musica classica. Ma sapevo che non era un capriccio. Era una sfida. La musica tradizionale araba è la sola che ho studiato da giovane. E ne sono uscito nel corso del tempo, in nuove direzioni».

L’hanno definita un «contrabbandiere di culture». Ci si riconosce?
«Non saprei se è positivo o negativo. Un avventuriero, forse...».

Lei ha allargato gli orizzonti musicali. Ma incide solo per la Ecm, l’etichetta di Keith Jarrett, Jan Garbarek, Enrico Rava. E c’è chi la ritiene un jazzista.
«Oh no, io non mi definisco un jazzista. Mai studiato jazz. Sono cresciuto nella Tunisia degli anni Settanta. Nutrito di tradizione, di giorno studiavo l’oud con il mio maestro, e la sera magari andavo al cinema per vedere Ingmar Bergman o Fellini. Ero, come molti della mia generazione, curiosissimo. La cultura europea non era poi troppo lontana...».

Al di là del Mediterraneo, così antico, ricco di civiltà e diversità.
«Diversità, sì. Ma non amo quel che chiamo l’effetto-insalata. Da compositore penso che si debbano saper integrare gli echi di diverse tradizioni dentro la propria creazione autonoma. Io aspiro ad avere la libertà totale, penso che la creazione superi il “genere musicale”. E difendo questa prospettiva di libertà».

Lei si prende molto tempo tra un lavoro e l’altro. Non si muove “secondo il mercato”. L’industria musicale non fa pressioni?
«Guardi, ho avuto la fortuna di incontrare la formidabile complicità di Manfred Eicher. Abbiamo prodotto dieci album insieme per Ecm. Ma non so mai cosa farò la volta seguente».

Ecm: Editions of Contemporary Music. Ma molti etichettano Anouar Brahem sotto world music. Come risponde?
«Non apprezzo. World music non vuol dir nulla. Tutto è world, se vogliamo, da Pierre Boulez a Beethoven, dal pop al folklore. Che senso può avere?».

E musica etnica?
«Termine troppo ambiguo. Anni fa, quando andai a Parigi e scoprii la scena cosmopolita, jazz, cinema, musica africana, l’industria discografica era molto compartimentata. Ma io volevo incontrare le persone, e i suoni».

Il marketing musicale è conformista?
«Direi: la musica è conformista. Il cinema lo è meno, perché è molto più giovane. Che cosa sarebbe il “cinema etnico”? Nello stesso festival possiamo incrociare Godard e Kiarostami...».

Parliamo dell’oud, strumento arabo antico che ha figliato il liuto rinascimentale. L’oud era forse un destino già scritto, per un artista oltre i confini come lei?
«Forse sì. L’oud è uno strumento viaggiatore, che ha conquistato parti di mondo. Le prime fonti iconografiche sono tra l’Iran e l’Iraq, poi è diventato lo strumento principe dell’età aurea della cultura araba. Infine è arrivato in Europa. Ce n’è traccia perfino a Cuba, tra gli strumenti di “Buena Vista Social Club”. L’oud negli anni Settanta rischiava di morire, aveva perso centralità nelle orchestre arabe, ridotto a valore simbolico. Io, da appassionato, ho voluto svilupparlo in senso solista. Che bizzarria, dicevano. E invece...».

Come compone la sua musica, al piano?
«Sì, anche se non mi ritengo un pianista. Compongo per piccoli schizzi, piccoli temi, procedo lentamente».

Sta lavorando a un nuovo album?
«Sono all’inizio, sì. Per me è un periodo caotico, e avrei bisogno di calma».

Lei vive scrivendo e suonando, un privilegio. La sua famiglia di che origine è?
«Ceto medio. Sono cresciuto nella Medina di Tunisi, in un quartiere popolare. Mio padre era artigiano, uno stampatore. Da bambino ho imparato la tecnica dei caratteri mobili, mi divertivo, ricordo bene gli odori della sua bottega. Sono il primo musicista in famiglia».

Le capita di ri-suonare con musicisti con cui ha lavorato anni fa? Con Jan Garbarek, il grande sassofonista norvegese?
«È capitato, sì. Incidere “Madar” con lui fu molto bello. Fu un incontro fortuito, grazie a Eicher, nacque così, esplorando. Sono momenti rari e preziosi. L’incontro studiato a tavolino tra “celebrities” non è cosa per me».

E ha ancora voglia di collaborare con musicisti che non conosce ancora?
«Sa, io sono di natura molto fedele. Mi è difficile pensare di cambiare il gruppo che ho creato. Il concerto, per me, è l’eccezione, non la norma. Faccio al massimo venti concerti l’anno».

Pochissimi. C’è chi ne fa duecento.
«Lo so. Ma non sono io che decido. È la musica che decide per me».