Preso nelle ore meno calde, produce nel corpo più vitamina D di qualsiasi integratore farmaceutico. Con grandi vantaggi nella prevenzione di malattie del cuore e delle ossa
Osannata da molti come una panacea per molti mali, la vitamina D è al centro di tanti studi scientifici e di lotte commerciali all’ultimo sangue. Tanto da essere stato uno dei farmaci più venduti in Italia nel 2015, come testimonia il rapporto di Federfarma: non solo, è anche in forte ascesa visto che, rispetto al 2014, le vendite sono aumentate di oltre il 32 per cento. Alcune analisi dipingono il mercato della D come uno dei più lucrativi e in maggiore espansione: rispetto al 2007 quando valeva 351 milioni di dollari, nel 2017 potrebbe arrivare a 1,3 miliardi di dollari.
Perché questa corsa ad accaparrarsi questa vitamina? Perché la ricerca sta scoprendo che i malati di tumore, artrite reumatoide, sclerosi multipla, ipertensione soffrono di un deficit di questa sostanza. Non più, quindi, solo la salute dell’osso: la D sembrerebbe essere l’ingrediente segreto per il benessere di molti organi.
Ma tra osservare che alcuni malati hanno un ipovitaminosi e dimostrare che prendendo la vitamina D la loro salute migliora ce ne passa. È quella che in ricerca si chiama differenza fra “studio osservazionale” e “studio interventistico”: nel primo i ricercatori fotografano la realtà, nel secondo provano a modificarla intervenendo. «Gli studi più recenti che hanno messo in evidenza l’azione della vitamina D su diversi organi e differenti meccanismi sono tutti di tipo osservazionale e retrospettivo. È vero però che indicano con chiarezza che in molti malati c’è carenza di questa vitamina, come del resto accade in circa il 60 per cento della popolazione», spiega Vincenzo Bruzzese, presidente della Società di Gastro Reumatologia, al cui congresso nazionale si è parlato proprio di questo argomento. A rischio sono in particolare gli anziani, che escono poco di casa e hanno scarse opportunità di produrla naturalmente.
Già, perché senza bisogno di andare in farmacia, il pieno di vitamina D si può fare. Basta mettersi al sole - anche se ci sono un po’ di nuvole - e le cellule della pelle si mettono al lavoro per produrla. «L’esposizione al sole è la fonte principale di vitamina D che viene prodotta dalla cute sotto forma di ormone e che poi, passando per fegato e reni, viene attivata», dice Andrea Giustina, ordinario di Endocrinologia all’Università di Brescia. «Bastano 30 minuti al giorno, nelle ore meno calde della giornata. A fare la differenza è la costanza. Ma si può approfittare dell’estate per fare una scorta che poi potremo usare nei mesi invernali», va avanti Giustina. Secondo la società italiana di Gastro Reumatologia, l’ideale sono le prime ore del mattino o le ultime del pomeriggio usando una crema a bassa protezione.
«Agli inizi del secolo scorso nei sanatori i pazienti affetti da Tbc venivano invitati ad esporsi al sole perché era stata notata una correlazione con un netto miglioramento della patologia, il che fece ipotizzare che il bacillo fosse sensibile proprio alla luce della nostra stella più luminosa. Oggi sappiamo che quel miglioramento è dovuto proprio all’incremento nella produzione di vitamina D che sviluppa un peptide, denominato “catelicidina”, in grado di distruggere il bacillo tubercolare», spiega Bruzzese.
Fra le tante proprietà che la D potrebbe avere c’è anche quella di toccasana per il cuore. Uno studio italiano ha infatti dimostrato che pazienti con livelli normali di D hanno meno incidenti cardiovascolari: l’80 per cento dei pazienti colpiti da infarto ha un deficit, totale o parziale, di vitamina D, e chi ha i valori più bassi ha un andamento peggiore della malattia e muore di più. Ancora una volta non è detto però che una supplementazione possa aiutare: non ci sono studi che dimostrino chiaramente che prendendo una pastiglia o facendo un’iniezione si muoia di meno di infarto. La stagionalità di alcune malattie, poi, ha portato i reumatologi a indagare. In inverno, quando i livelli di vitamina D sono più bassi, sono maggiori le ricadute delle malattie reumatologiche, come l’artrite reumatoide. «La carenza di questa sostanza attiva il sistema immunitario che comincia a produrre sostanze di tipo infiammatorio, che sono alla base della recrudescenza della malattia», sottolinea Bruzzese.
L’azione sul sistema immunitario ha fatto ritenere a molti che ci fosse un legame fra bassi livelli di vitamina e sclerosi multipla, malattia neurologica degenerativa in cui il sistema immunitario colpisce la mielina, sostanza fondamentale per il sistema nervoso. Sulla scorta di questa ipotesi sono stati condotti alcuni studi i cui risultati sono però piuttosto deludenti. La posizione degli esperti è ben riassunta da Gianluigi Mancardi, presidente del Comitato Scientifico dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla: «Se al momento è giustificato raccomandare l’assunzione di vitamina D alle persone con sclerosi multipla come prevenzione dell’osteoporosi e in coloro che presentano un vero e proprio deficit di vitamina, evidenziato tramite analisi del sangue, non è invece raccomandata l’assunzione, specialmente ad alto dosaggio, come trattamento della sclerosi multipla. In generale l’assunzione di vitamina D è ben tollerata, ma ad alti dosaggi può causare fatica, nausea, vomito, crampi addominali, aumento della pressione arteriosa, problemi di funzionalità renale».
Dove le evidenze scientifiche sono più solide è infatti nel campo dell’osteoporosi, che è poi da dove si è partiti a dimostrare le potenzialità di questa sostanza. Ma anche in questo caso si deve fare attenzione: «Non tutti hanno bisogno della stessa quantità e ci sono delle condizioni che limitano l’assorbimento della sostanza che bisogna tenere in conto per capire anche quale formulazione sia la migliore, se quella orale o intramuscolo. E che ci sono delle categorie di pazienti particolarmente a rischio, come gli anziani», spiega ancora Giustina che al convegno “Clinical Update in Endocrinologia e Metabolismo” che si è tenuto all’inizio di luglio ha discusso di giusto dosaggio. «Così come è importante capire che da sola la vitamina D non risolve tutti i problemi di fragilità ossea». Le nostre ossa si ricostruiscono e rinforzano grazie a due meccanismi: la fase cellulare e la mineralizzazione, nella prima le cellule vecchie vengono distrutte e se ne producono delle nuove, nella seconda il calcio viene fissato nell’osso conferendogli forza. Nella prima la vitamina D non entra, ma nella seconda è determinante perché è lei che permette al calcio di depositarsi sulle ossa.
«Ci sono fasi della vita in cui la prima fase è esasperata, come nella menopausa», spiega Giustina. «Le cellule vecchie vengono distrutte a un ritmo superiore e si rende necessario agire con sostanze che riducano questa attività, come i bifosfonati». Ma la combinazione con la vitamina D è indispensabile. L’uno senza l’altra non basta, così come il contrario. La supplementazione poi non sembra sufficiente in fase preventiva: nelle persone che cominciano a prendere l’integratore di D prima ancora di sapere di essere a rischio di sviluppare osteoporosi non si riscontra poi una minore probabilità di cadere e rompersi il femore, che è l’evento più facile che accada agli anziani con fragilità ossea. Meglio garantirsi una passeggiata all’aria aperta tutti i giorni, a tutte le età, soprattutto d’estate.