Anche il killer ha le sue regole: il nuovo romanzo di Nicolai Lilin
Un assassino professionista. Che vuole dire basta. ?Ma l’organizzazione gli affida un ultimo incarico. Contro ?la stessa etica criminale. Ecco un brano dal libro dello scrittore appena edito
Alëša è nervoso. La conversazione con Rakov l’ha distolto da ogni altro pensiero, ma adesso, all’improvviso, il maledetto puntino nero è tornato a fargli visita e non si toglie da lì, distraendolo con quell’aria misteriosa di una stella al contrario, nera in mezzo alla luce.
«Quindi decido io?» chiede cercando di mascherare le note di agitazione nella voce. «Parola mia, fratello. Decidi tu». « E qualsiasi mia decisione sarà rispettata?». «Te lo giuro sulla mia vita». Non è proprio il massimo giurare sulla propria vita davanti a un assassino, si dice Alëša passandosi una mano sulla testa rasata. Dà un’occhiata ai ragazzi che accompagnano Rakov. Sembrano un po’ tesi ed è evidente che il loro nervosismo è frutto della scarsa preparazione professionale. Uno di loro, quello più vicino alla panchina, ha un pezzo di silenziatore che gli spunta da sotto la giacca. Si sta guardando attorno con allarme e preoccupazione, sembra il personaggio di un poliziesco di serie B. Poi Alëša parla, sorprendendo se stesso. Le parole gli escono di bocca senza che lui possa controllarle: «Se è così, fratello, permettimi di uscire dall’organizzazione. Voglio cominciare una nuova vita, trovarmi una casa da qualche parte per sistemarmi. Sono stanco di viaggiare, di spostarmi in continuazione, di pensare sempre che in ogni momento tutto quello che mi circonda, me compreso, può svanire nel nulla. Non voglio dipendere dai tuoi equilibri, dalla tua posizione a Mosca, non voglio essere considerato nemico dai tuoi nuovi nemici solo perché ti sono stato fedele. L’hai detto anche tu, siamo cambiati, il nostro vecchio mondo criminale non esiste più perché si è trasformato, è evoluto in qualcos’altro. Ecco, anch’io vorrei evolvermi, perché so che se rimango attaccato al passato rischio di scomparire nelle sue acque».
Dopo le sue parole tocca a Rakov pensare in silenzio, o meglio, fingere di pensare in silenzio, come se quel discorso gli suonasse nuovo, come se non fossero lì per parlare di quello: del suo desiderio di uscire dal giro. Imita una profonda riflessione con maestria teatrale, la sua fronte si è riempita di rughe pesanti che sembrano nuvole ammassate in cielo prima della pioggia. Nella testa di Alëša gira un solo pensiero: «Che bastardo». Con quella sceneggiata Rakov lo sta trattando come un pivello. Per una cosa simile negli anni Novanta gli avrebbe sparato in faccia senza nemmeno spiegargli il perché. Ma ora non può farlo. Vent’anni fa avrebbe ammazzato uno dei tanti boss criminali, oggi ammazzerebbe un uomo politico. E non ne uscirebbe intero. Deve stare lì e far finta di non capire, ingoiare quella merda e sembrare amichevole. Che umiliazione, dopo tutto il sangue che ha fatto scorrere per lui, vederlo interpretare questo spettacolo da due soldi...
All’improvviso Rakov si rianima, come se la sua mente fosse stata illuminata da un’idea meravigliosa. «Fratello, ti dico con sincerità che rispetto la tua scelta. Sono d’accordo con te, con il tuo desiderio di essere libero. Però, ecco, in questo momento... Non posso lasciarti andare subito, capisci? Sei un professionista prezioso, e mi serve qualcuno che possa almeno in parte coprire la tua posizione. Ma mi è appena venuto in mente di proporti un accordo. Mi segui? Tutto a posto? Posso dirti cosa farei per aiutarti nella tua strada verso la libertà?». Appena? Rakov vuole davvero fargli credere che ha ideato un piano adesso, in quattro e quattr’otto? Alëša è indignato, però non dice niente. Rimane fermo a fissare la faccia di Rakov, chiudendo solo le palpebre più a lungo del solito. Nel buio, il puntino scompare. Rakov interpreta quegli occhi stretti come un assenso, e riprende a parlare: «Ho un lavoro urgente da fare - gli dice - e nessun altro all’altezza di eseguirlo.» Poi lo guarda fisso e per un attimo un’idea folle attraversa la mente di Alëša: «Non è che mi ordina di far fuori il presidente?» Osserva la faccia finta di Rakov: è abbastanza pazzo da averci fatto un pensiero. Ma sarebbe una missione suicida, impossibile da portare a termine anche per uno come lui, e Rakov rischierebbe di essere sputtanato per sempre. No, non può essere. Rakov gli legge nella mente: «Non è un incarico in Russia e non è un incarico particolarmente difficile, da eseguire, intendo...». Si sofferma, sta per pronunciare la frase chiave del suo discorso, quella che farà luce su tutta la situazione. E la dice: «Il tuo obiettivo è una donna». Alëša ci rimane di stucco. Si aspettava di tutto, ma quell’ipotesi non l’aveva considerata. «Una criminale?», chiede. Ma sa già quale sarà la risposta. «Non direi. Diciamo una persona... scomoda?». Ci sono delle regole nel suo lavoro che ha imparato dal suo vecchio maestro. Quelle semplici regole rappresentano il limite che separa gli assassini professionisti, i nobili di quel mestiere, dai miserabili che giocano con le vite degli altri giusto per passare il tempo. Esiste la regola della sacralità della casa, per cui nessuno deve essere ammazzato a casa propria, la regola della sacralità della paternità, secondo cui nessuno deve essere ammazzato durante la gravidanza della sua donna e il primo anno di vita del loro bambino. Una delle regole più importanti è che non si ammazza mai qualcuno che non ha a che fare con il mondo criminale. Ma soprattutto non si ammazzano le donne e i bambini. Lui queste regole ha sempre cercato di seguirle e Rakov lo sa. Chiedergli di ammazzare una donna è un colpo bassissimo. Alëša non dice niente, si alza solo dalla panchina dando la schiena a Rakov e fa qualche passo, come per andare via. è un gesto pericoloso, che può significare una rottura. E una rottura può danneggiare entrambi. Forse Alëša non è cosciente fino in fondo di quello che sta facendo, forse per un secondo si è lasciato guidare dal suo istinto. Nell’attimo in cui si rende conto che si sta allontanando sente il corpo diventare di vetro e riempirsi di crepe, prossimo a cedere. Poi la voce del suo capo lo obbliga a fermarsi: «Sarà il tuo ultimo lavoro». Alëša si blocca, di nuovo intero. Si gira con fatica, lentamente, verso Rakov. I loro sguardi si scontrano e si può percepire nell’aria un’energia distruttiva di tale forza che se qualcuno ci finisse in mezzo rimarrebbe fulminato. Tutti gli elementi più drammatici delle loro due vite fusi in un’unica corrente. Ci sono gli anni in cui hanno cominciato nella banda, partendo dalla gestione di una piccola palestra. Ci sono gli anni delle guerre, prima quelle per il territorio e poi per il dominio negli affari, in cui Rakov accumulava sempre più potere e Alëša era la sua ombra, quello che puliva la strada ai suoi trionfi. Ci sono la vita, la morte, le prove di forza, di coraggio, di fedeltà alle regole. Ma soprattutto ci sono le vite sacrificate sull’altare del predominio della loro banda. Ci sono l’odio, la paura, e c’è quel sentimento strano che li lega, un sentimento contraddittorio che oscilla tra il rispetto e il timore.