Sempre più donne fanno congelare i propri ovuli attorno ai 30-35 anni, rimandando ?la gravidanza a più tardi. Un modo per bilanciare i tempi biologici e quelli della società

Teresa ha 36 anni, fa l’impiegata e da anni, dopo la laurea, lavora. Segni particolari: single. Ma non rinuncia all’idea di avere un figlio. Non ora però. Teresa (il nome è di fantasia) ha messo in banca la sua fertilità per aspettare il suo momento giusto: quello in cui, accanto a un compagno, vorrà diventare mamma. Avrebbe potuto prendere un aereo per la Spagna e scegliere di avere un figlio con il seme di un donatore, ma questo non è il suo progetto.

Teresa è in abbondante compagnia: in Italia il “social freezing”, il congelamento degli ovociti per scopi non medici, sta prendendo piede. Non siamo ancora ai livelli degli altri paesi europei, ma sono già almeno un centinaio le donne che hanno fatto questa scelta. «Non ho intenzione di avere un figlio da sola», racconta Teresa a “l’Espresso”: «Non ne faccio una questione morale, ma personalmente vedo un figlio come il completamento di un progetto di coppia: se un giorno incontrassi qualcuno, in questo modo potrei guadagnare tempo».

Già, perché l’orologio biologico corre e diventare mamma a 25 anni non è lo stesso che a 40. Intorno ai 35 quell’orologio comincia a ticchettare rumorosamente. Anche se gli italiani hanno le idee confuse in materia, come dimostra una ricerca condotta dall’Istituto francese Odoxa con il supporto di Gruppo Clinica Eugin su tremila cittadini europei. Alla domanda “qual è l’età più fertile per una donna?” il 30 per cento è convinto che dopo i 28 anni si sia più fertili che a 20 (quanto invece l’età migliore è 24) e alla domanda “qual è l’età ideale per avere il primo figlio?” gli italiani sono quelli che indicano l’età più avanzata, 28 anni appunto.
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E per preservare la propria fertilità invece, qual è l’età migliore? L’ideale, concordano gli esperti, è approfittarne prima dei 35 anni, lo spartiacque della fertilità femminile. Ma non è raro però che a farlo siano donne più grandi, intorno al 36-37 anni, come Teresa, che ha congelato i suoi ovociti giusto pochi mesi fa, dopo aver sentito che il tempo cominciava a scadere: «Mia madre è entrata in menopausa precocemente e questo mi ha spinto a riconsiderare la possibilità di diventare mamma. Al tempo stesso, mia sorella, come medico, mi ha aiutato a sfatare alcuni miti sulla fertilità, come l’idea che solo per il fatto che i figli si fanno sempre più tardi la fertilità aumenti con l’età». Il resto lo ha fatto l’occasione: una clinica privata vicino casa aperta da poco.

Il social freezing, infatti, non è una prestazione garantita dal sistema sanitario; chi è interessato deve rivolgersi alle diverse strutture private presenti sul territorio: quelle italiane, come 9.baby o il Centro Nike, e tante altre, o quelle straniere come Eugin. Il costo è variabile: da 600 a 4.000 euro, cui vanno aggiunte qualche centinaia di euro per mantenere gli ovuli negli anni a venire e il costo dei farmaci per la stimolazione ormonale. «Le donne che vediamo nelle nostre cliniche sono molto diverse da come ci si immagina», dice Rita Vassena, direttrice scientifica del Gruppo Eugin: «Aspirano a una famiglia di tipo tradizionale, ma capiscono che per avere più chance di realizzare il loro sogno devono cercare di preservare la fertilità ricorrendo al congelamento degli ovociti».

Congelamento che avviene ormai con tecniche standardizzate e che permettono di ottenere risultati fino a poco tempo fa insperabili, spiega Antonio La Marca, professore di ginecologia e ostetricia all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia: «Il congelamento si esegue ora con la tecnica della vitrificazione che implica un abbassamento repentino della temperatura. In questo modo non si creano cristalli all’interno dell’ovulo e quindi aumenta la sopravvivenza dei gameti una volta scongelati. Ormai il 99 per cento degli ovociti congelati può essere scongelato e usato». Pronto all’uso, al momento opportuno.

Anche se, sulle percentuali di successo della fecondazione assistita nessuno può scommettere. Se da una parte il tasso di successo dei trattamenti di procreazione assistita con ovuli provenienti da donatrici giovani è maggiore rispetto a quello che si avrebbe usando i propri, dall’altra la fertilità non è solo un fatto di ovociti. «Per questo, più che di social freezing mi piace parlare di prevenzione dell’infertilità da esaurimento ovarico, perché questo è ciò che facciamo: tuteliamo il numero e la qualità degli ovociti, ma non il resto», spiega Maria Giuseppina Picconeri, ginecologa specialista in medicina della riproduzione e direttrice del Centro Nike Medical Center di Roma: «La fertilità coinvolge diversi aspetti, per questo quando si prelevano gli ovociti e al momento di utilizzarli per una fecondazione in vitro si valuta lo stato generale della salute riproduttiva, dalla misura della funzionalità tiroidea alla morfologia dell’utero e alle alterazioni della vascolarizzazione», cita ad esempio.

Tutto questo per informare la paziente sulle reali possibilità di avere un figlio: «Per esempio, al momento degli esami l’utero mostra anomalie che sappiamo rendere difficile l’evoluzione della gravidanza, va detto alla donna che a prescindere da quando userà i suoi ovociti rimanere incinta e portare a termine la gravidanza potrebbe non essere così semplice».