E' riuscito fare musica con tutto: acqua, vento, api, voci, sintetizzatori. Ora il Romaeuropa festival ripropone il suo “Riti Marittimi”, lo storico allestimento galleggiante che 36 anni fa segnò il debutto in campo aperto questo immaginifico creatore di paesaggi sonori
Se è vero che la musica, come la vita del resto, è l’arte dell’incontro, quello di Alvin Curran con Roma è stato un incontro davvero speciale. Si potrebbe anche definire una folgorazione, pensiamo a Saulo sulla via di Damasco, con la differenza che il musicista americano l’illuminazione l’ha sperimentata tra i vicoli di Trastevere e campo de’ Fiori appena sbarcato dall’aereo con in tasca poco denaro, un diploma in composizione dell’università di Yale e in testa un sogno anarchico: abbattere ogni gerarchia tra suono e rumore per poter considerare il mondo stesso come un grande spartito. Il seme di John Cage lanciato tra i sampietrini della città Eterna.
Erano i primi anni Sessanta. Da allora, Curran non ha mai smesso di ascoltare e di memorizzare con il suo registratore le mutevoli presenze sonore offerte dallo scenario dell’Urbe e delle diverse metropoli visitate e abitate di volta in volta nel corso del tempo. Il suono delle campane, il fruscio del vento tra gli alberi, il gorgoglio delle fontane, un coro di chiesa, il rumore del traffico… «Tutto ciò che ascolto nell’ambiente circostante per me è musica», spiega spalancando la finestra del salone con vista sulla Domus Aurea. In lontananza gli echi della città, quella che si offre allo sguardo vorace dei turisti con i suoi monumenti carichi di storia, i suoi paesaggi da cartolina, ma anche quella delle cantine, dei garage di Trastevere, del Beat 72, della galleria l’Attico, delle Estati visionarie di Renato Nicolini e altri mirabili “objets trouvés” che si affacciano alla memoria di chi ha attraversato da protagonista la vibrante stagione dell’underground a cavallo degli anni Sessanta e Settanta «quando Roma», ricorda Curran, «riuscì a reinventarsi come straordinario palcoscenico dell’avanguardia e a diventare un crocevia internazionale di poeti, musicisti, scrittori registi in sintonia con quanto accadeva nelle altre capitali al di qua e al di là dell’Atlantico».
Tempi lontani ormai e forse oggi anche un po’ dimenticati, specie dai più giovani. Sennonché, grazie al
Romaeuropa festival, l’unica rassegna che in direzione ostinata e contraria continui a investire sui linguaggi del contemporaneo (che si tratti di danza, di teatro o di musica) e a tenere vivo lo spirito di quegli anni, domenica 25 settembre torna “Riti Marittimi”. Parliamo dello storico concerto galleggiante presentato nel lontano 1980 che segnò l’esordio in campo aperto di questo prodigioso inventore di paesaggi sonori.
L’evento gratuito si terrà come allora nel laghetto di Villa Borghese verso mezzogiorno e vedrà sfilare sulla superficie dello spartito acqueo un certo numero di barche a remi con a bordo elementi della Scuola di Musica Popolare di Testaccio e giovani voci del Conservatorio di Santa Cecilia.
L’intento, oggi come allora, quello di creare una nuova forma di teatro musicale utilizzando sonorità di diversa natura (le voci di un coro, una piccola banda di ottoni, le note di un piano, campionamenti dei versi di vari animali) e i suoni dell’ambiente circostante. «L’importante», spiega il Nostro «è imparare ad ascoltare quello che Cage chiamava “il silenzio non silenzio”, un concetto alla base della filosofia zen che io stesso ho sempre interpretato in modo giocoso per condurre le persone alla consapevolezza che i suoni del mondo in cui viviamo rappresentano una musica molto più interessante di quella che si potrebbe ascoltare in una sala da concerto». “Riti Marittimi” ha visto fino ad oggi almeno una ventina di allestimenti e utilizzato via via come scenografia spazi sempre più grandi, dal porto di Sydney al laghetto di Central Park a New York, dal fiume Sprea a Berlino al porto di La Spezia dove sono state coinvolte anche navi della marina militare per arrivare, infine, a espandersi addirittura nell’etere concertando via radio le sirene anti nebbia dei fari della West Coast.
Sembra evidente dunque che il nuovo allestimento di questo lavoro, di fatto il suo primo esperimento di “land music”, non rappresenti un ritorno al futuro quanto piuttosto la chiusura di un cerchio. Il tributo di Romaeuropa a questo straordinario outsidser dell'avanguardia, infatti, non termina qui, ma
si concluderà il 27 novembre all’Accademia di Francia con “Endangered Species, ossia The Alvin Curran Fakebook”.
Un’autobiografia atipica in forma di “solo” performance per pianoforte e tastiere-midi composta da più di 200 lavori organizzati per frammenti, itinerari e cellule sonore sparse che Curran con ironia non esita a definire «una vera e propria antologia di genuina “musica impopolare”». Quasi un riflesso sonoro, insomma, del DNA che ha sotteso il percorso artistico e umano di uno sperimentatore pacifico e radicale. Un percorso anche questo pieno d’incontri: da Frederic Rzewski e Richard Teitelbaum, i giovani compatrioti assieme ai quali, negli anni Sessanta Curran fonda Musica Elettronica Viva (Mev), il gruppo d’improvvisazione che per primo in Italia utilizzò il moog e il sintetizzatore; all’incontro con Franco Evangelisti, il visionario animatore del gruppo Nuova Consonanza a quello con i minimalisti Philip Glass e Terry Riley incontrati nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini.
Molte intuizioni e molti strumenti inaugurati da quei pionieri dell’Avanguardia sono entrate nel frattempo nel lessico del rock e dell’hip hop, senza contare i dj milionari che oggi animano la scena dance elettronica. Ma Curran non ha rimpianti: «Mio padre suonava il trombone in un’orchestra da ballo e io stesso, mentre studiavo Mozart e Beethoven ho fatto parte di un gruppo dixieland. Dalla musica popolare non ho mai smesso di imparare: ieri c’erano i Beatles e i Pink Floyd, oggi Aphex Twin e Laurent Garnier. Io però ho scelto di rimanere orgogliosamente dalla parte più radicale della ricerca».
Eppure la musica popolare è ancora pienamente presente nella sua musica di questo artista, sebbene «“ridotta” raffinatamente come un chef riduce un sugo all’ultima molecola».
I suoi modelli oltre a Cage sono stati compositori geniali e sui generis come Giacinto Scelsi e Giuseppe Chiari («un matto fiorentino fantastico e brillante») o riveriti maestri come Vittorio Gelmetti («I suoi otto minuti di pura elettronica composti per “Deserto rosso” restano insuperati»). «Artisti che hanno vissuto ai margini della scena ufficiale, ed è lì che sono rimasto anche io. Nel solo spazio dove mi sento libero di creare allestimenti che nessun manager o discografico sarebbe così pazzo da produrre. Ho fatto una scelta, ho assecondato la mia indole ribelle».