Rifiutava ogni compromesso. E ogni compiacenza con il sistema. Per questo ?era un intellettuale puro. Vero. Anomalo. Ma, soprattutto, rivoluzionario

Parlare di un intellettuale - di un grande intellettuale - in un’era in cui, scriveva con ironica ferocia Edoardo Sanguineti, «gli intellettuali sono quelli che vanno in televisione a fare gli intellettuali» - non è facile. Lo è ancora di più quando si tratta di un intellettuale che chi scrive ha avuto la fortuna di avere per amico. E diventa estremamente doloroso farlo quando è la morte, inaspettata, a crearne l’occasione.

Tommaso Labranca è stato una delle figure più anomale e fondamentali di quel residuale museo che è la cultura italiana degli ultimi decenni, dove pochi sono stati quelli che hanno avuto davvero qualcosa da dire in un’era in cui, portando al parossismo una previsione di Pasolini di oltre cinquant’anni fa, un larvale, nascosto fascismo livellante blocca inesorabilmente le voci più critiche e rivoluzionarie.

Erano i primi anni Novanta dello scorso secolo quando, in forma quasi clandestina, attraverso la sua fanzine, Tommaso Labranca, con visionarietà quanto mai lucida, iniziava a raccontare di un mondo, quello attuale, che sovvertiva tutti i valori della secolare tradizione italiana - diciamo quella che ha avuto origine nel Rinascimento - e che pure, tra alti e bassi, è stata (e lo rimane, in modo sommerso) tra le più grandi della Storia di un’Europa che da troppo finge di esserci. Pure, Labranca, polemico come ogni vero intellettuale, si è sempre distinto, ed in questo è stato unico, per cogliere quanto del “nuovo” era positivo, stimolante: ne ha saputo mappare evoluzioni e involuzioni, diventando così un vero cronista dello Zeitgeist, del suo e del nostro tempo.

Così, come Gillo Dorfles seppe, alcuni decenni prima, identificare in un suo storico volume la categoria emergente del kitsch come cifra collettiva dell’Italia del dopoguerra, Labranca seppe identificare in quello che rimane forse come il suo più potente ed epocale lavoro, “Andy Warhol era un coatto”, edito da Castelvecchi, il fenomeno del trash come sintesi di un’era nella quale, in una sorta di loop storico, siamo intrappolati. Il trash, per Labranca, è, secondo la sua fulgida definizione, «l’emulazione fallita di un modello alto», laddove il modello alto è tale semplicemente per maggiore fama: i celebri quindici minuti di fama a tutti concessi, come nella profezia del citato Warhol.

Ma Labranca, da “giovane salmone”, quale si è sempre definito, risaliva la corrente della critica sterile o accademica, che detestava, riuscendo, lui solo, e per “compassione” (in senso etimologico: dunque per capacità sincera d’immedesimazione) dalla parte delle “vittime” di un sistema di cui ha colto, nella sua opera, nei suoi spesso asprissimi spesso dolci articoli, le più sottili sfumature, senza volere mai “essere simpatico” a nessuno ma in lotta costante, alla ricerca di quell’Araba Fenice (da troppo dormiente, invero) che è la Verità: non quella assoluta, in cui penso non abbia mai creduto, ma quella umanistica, nel suo laico e lento incedere senza compromessi e con bruciante capacità di spiazzare ogni luogo comune, fosse pure quello di sottrarsi al luogo comune stesso.

Credo fosse una persona molto sola, Tommaso Labranca. Come è solo chi non ama i compromessi e le messe in scena ma, anzi, le fustiga. Suoi nemici erano chi ha ridotto un paese a parodia di se stesso, suoi inconsapevoli alleati le vittime della parodia, la loro ineliminabile umanità. Anche se non erano in grado di leggere Labranca. Anche se non leggevano proprio nulla.

Come disse Giorgio Colli ricordando Nietzsche, con parole di pietra, possiamo soltanto dire, ora: «Pietà per un eroe».