Più incline a raccontare i peccatori, qui il regista americano usa un tono ascetico non sempre autentico

Da tempo Martin Scorsese progettava l’adattamento del romanzo “Silenzio” di Shusaku Endo, uscito cinquant’anni fa e dedicato alle persecuzioni contro i cristiani nel Giappone del ’600. Non stupisce la sua passione per il libro, intriso di un cattolicesimo tormentato, tra Graham Greene e Bernanos; e il film si situa sul versante più esplicitamente spirituale del regista, quello di “L’ultima tentazione di Cristo” o “Kundun”. Confermando però che il suo cinema, e anche la sua tensione morale e religiosa, hanno maggior forza quando sono “secolarizzati”, incarnati in itinerari di peccatori prossimi al mondo del regista: il pugile di “Toro scatenato”, il ragazzo di strada di “Mean Streets”.

Silence comincia nel 1630, con l’incredibile notizia che uno dei più luminosi evangelizzatori del Giappone, padre Ferreira (Liam Neeson), avrebbe rinnegato la fede. Dell’uomo si sono perse le tracce, e alla sua ricerca si mettono due suoi allievi (Andrew Garfield e Adam Driver). Viaggio terribile per le insidie degli shogun, che torturano e sterminano i cristiani; ma anche, potremmo dire, ininterrotta veglia nel Getsemani popolata di dubbi: sulla liceità di far soffrire gli altri per la propria fede, sul silenzio di Dio che tace davanti alla morte dei suoi, sui rischi di superbia nell’Imitatio Christi di chi va incontro al martirio.

Scorsese si è messo davanti al tema con serietà, costruendo una sceneggiatura rifinita dal punto di vista morale e drammaturgico. In più, ha cercato di prendere alla lettera il titolo e lo spirito del libro. E quindi, se all’inizio si intravedono ricordi di esotismo cinefilo (ma soprattutto un omaggio a Mizoguchi), cerca un tono ascetico, attento ai conflitti morali, quasi privo di musica. Ma così facendo Scorsese va contro la propria natura di regista; il risultato è paradossalmente enfatico, e incappa in alcuni scivoloni (la scena clou dell’effige di Cristo calpestata, girata senza audio e al ralenti).

Alla fine, l’epopea dell’evangelizzazione sfuma in qualcosa di più complesso, anche perché ai tormenti dei gesuiti si contrappone un inquisitore giapponese che, oltre alle torture, ha dalla sua una visione in fondo più moderna e saggia del confronto tra religioni e culture. E il cristiano più autentico, e il personaggio più scorsesiano, si rivela il giapponese Kichijiro, che si trascina ossessivamente di tradimento in pentimento.