La capitale riparte dalle sue periferie: il cinema trova i suoi set nelle borgate più difficili, l'arte di strada conquista le istituzioni culturali. E mentre la città proietta un’immagine sempre più decadente, avanza una nuova estetica. Universale

La pinna del grande squalo bianco brilla nella campagna al limite della città. Vista dal lontano la Vela disegnata da Santiago Calatrava conserva una certa maestosità. Ma è solo un'illusione. Da vicino, lo stadio del nuoto dei Mondiali del 2009 si rivela per ciò che è: un'opera incompiuta, circondata da alti ciuffi d’erba, protetta da un reticolo di grate in ferro arrugginito, assediata dai rifiuti. Simbolo osceno di tutte le opere pubbliche mai realizzate, costate ai contribuenti centinaia di milioni di euro. Un relitto nascosto dietro un’insegna scolorita e mangiata dal tempo, nella zona di Tor Vergata a Roma Est, di fronte al campus universitario.

Un luogo inaccessibile, ma non per tutti. «Embè, sarebbe questa la sorpresa?», chiede Sara Monaschi (Claudia Gerini) a Lele (Eduardo Valdarnini) nello spiazzo sotto la volta progettata dall’architetto spagnolo. «Semo noi ’a sorpresa», dice sbucando da dietro una colonna Numero 8 (Alessandro Borghi), capelli biondo platino e occhi spiritati, prima di estrarre la pistola con cui minaccia la donna. L’attrice è tra i protagonisti dell’intrigo di “Suburra”, la serie tv su Netflix (prodotta da Cattleya) diretta da Michele Placido, Andrea Molaioli e Giuseppe Capotondi, ambientata qualche anno prima dello scandalo di Mafia Capitale. «Pensace bene, andostà ’sto prete. Magari te torna in mente», incalza Numero 8. «Ma te conviene protegge quer bacarozzo demmerda dico io?», interviene Spadino Anacleti (Giacomo Ferrara), socio in affari malavitosi degli altri due giovani, esponente di un potente clan di zingari che da anni spadroneggia nella capitale, ispirato alla famiglia dei Casamonica.
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Abitano dietro l’angolo i Casamonica, quelli veri, a ridosso dei centri commerciali della Romanina, nelle ville con piscina protette da telecamere a circuito chiuso. Come in via Roccabernarda, dove un bene confiscato al clan è stato riconsegnato alla collettività: l’immobile di 600 metri quadrati, oggi sbarrato e presidiato da guardie giurate per evitare rappresaglie, diventerà un centro polifunzionale per giovani autistici.

BANLIEUE DA CLASSIFICA
A Roma sempre più spesso cronaca e finzione si contagiano, si specchiano una nell’altra, e non di rado la realtà supera la fantasia. Fino al paradosso, come per la Vela di Calatrava: un’infrastruttura incompiuta diventa il set di una serie tv di successo e acquista una sua utilità. Se dai diamanti non nasce niente, dal degrado della periferia romana e di Ostia, dove i boss criminali se la intendono coi neofascisti di CasaPound, nascono storie e personaggi che diventano spunti per serie tv, fumetti, film, opere d’arte, romanzi che scalano le classifiche e proiettano nel mondo l’immagine di Roma.
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Un paio d’anni fa aprì la strada “Lo chiamavano Jeeg Robot”, il film di Gabriele Mainetti, con il suo supereroe di Tor Bella Monaca. Nella narrazione il luogo reale, sublimato e trasfigurato, tende a trasformarsi in condizione dello spirito, metafora universale, sfondo di dilemmi umani. Come in “Dogman”, il prossimo film di Matteo Garrone, ispirato a uno dei casi di cronaca nera più scioccanti degli ultimi decenni: la vicenda di Pietro De Negri, detto “er Canaro”, che nel 1988 sotto effetto di cocaina torturò e uccise per vendetta Giancarlo Ricci, piccolo ras di quartiere. Di recente Garrone ha girato alcune scene del lungometraggio, la cui trama è ancora top secret, alla Magliana, la zona in cui abitava “er Canaro”, e nella borgata confinante, il Trullo. Più che una storia di vendetta un «western metropolitano e contemporaneo», secondo il regista, dove la leggenda prevale sulla realtà.

DAL MUSEO OCCUPATO ALLA DIREZIONE DEL MACRO
E così la periferia diventa protagonista, palcoscenico di verità e spazio di sperimentazione creativa, paradigma estetico agli antipodi rispetto alla Roma mondana e patinata de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino. A Tor Sapienza, quadrante Est, la politica è distante anni luce, il sindaco un marziano, di qualunque colore sia. Più la zona si deteriora tra roghi tossici, malavita, montagne di rifiuti, un ex albergo di lusso occupato da 200 famiglie di diverse nazionalità, campi rom e fiammate razziste, più l’arte prova a ricucire lo strappo culturale con la città, recuperando aree in disuso e interstizi urbani. Sulla parete del Grande Raccordo Anulare, all’altezza di La Rustica, troneggia il murale “El sosiego de un futuro en deuda” (“La calma di un futuro in debito”) dell’artista venezuelano Koz Doz, busto mezzo umano e mezzo animale che richiama Marte, la divinità guerriera, il muso diviso in due, metà gatto selvatico metà lupo. L’opera fa parte di Graart, progetto di arte contemporanea urbana promosso da Anas e ideato dallo street artist David Diavù Vecchiato per valorizzare l’autostrada più trafficata d’Italia. Sono undici i murales realizzati finora lungo il percorso del Gra, ispirati alla storia e al mito di Roma. Altri sei vedranno la luce nei prossimi mesi su pareti, sottopassi e rampe, da Boccea all’Ardeatina. Un tour da percorrere a tappe nelle intenzioni di chi l’ha inventato, sintesi grafica di Roma antica e contemporanea.

La grande bruttezza
Zerocalcare oltre le macerie: una risposta ai luoghi comuni sulla Capitale
23/11/2017
Dall’anello stradale più esterno lo sguardo torna verso il centro, lungo via Prenestina, per atterrare su Metropoliz, al civico 913, la “città meticcia” fondata nel 2009 dai Blocchi precari metropolitani, una delle sigle del movimento di lotta per la casa: in questa vasta area dismessa, dove un tempo c’era il salumificio Fiorucci, adesso abitano circa 200 persone, in maggioranza famiglie rom, ucraine, peruviane, marocchine, ma anche italiane, finite in disgrazia negli anni della crisi. Uno spazio occupato di proprietà del gruppo Salini Impregilo, sotto costante minaccia di sgombero. La scritta bianca “Fart”, sul tetto dello stabilimento, si staglia nel cielo grigio piombo. All’ingresso, dietro al cancello in ferro verniciato di celeste, Giorgio de Finis fa gli onori di casa. Antropologo e videomaker, è lui l’anima del Maam - Museo dell’altro e dell’altrove, acronimo altisonante e provocatorio che racchiude un tesoro: circa 500 opere - graffiti, installazioni, sculture - quasi tutte realizzate sul posto negli ultimi cinque anni da artisti emergenti e di fama internazionale, nomi come Massimo Attardi, Luigi Ontani, Pablo Echaurren, lo street artist egiziano Ammar Abo Bakr. Hanno firmato la “Cappella porcina” gli spagnoli Pablo Mesa Capella e Gonzalo Orquín, murale di trenta metri che raffigura una serie di suini appesi, mentre nel 2015 è stata esposta qui la “Venere degli stracci” di Michelangelo Pistoletto.
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«Con il Maam vogliamo raggiungere diversi obiettivi», spiega de Finis, mentre visitiamo il museo. «Intendiamo costruire una barricata d’arte, anzi una barriera corallina a difesa dell’occupazione di questo spazio e dei suoi abitanti. Ma vogliamo evitare l’effetto enclave: il museo è aperto ai visitatori ogni sabato e in occasione di solstizi ed equinozi», aggiunge l’antropologo mentre attraversiamo lunghi corridoi e improvvisi spazi in cui i graffiti d’autore convivono con le coperte stese ad asciugare, nell’aria profumo di bucato e odore di candeggina. In un cortile gioca un gruppo di bambini rom, su una terrazza lavorano due artisti brasiliani, sul piazzale tre ragazzi sudamericani tirano calci a un pallone. «Un super-luogo», l’ha definito Marc Augé qualche mese fa. «La mia visita è stata un’esperienza unica, straordinaria. È la prima volta che vedo un luogo di questo genere, così ricco di opere d’arte, un luogo in cui l’arte protegge. Perché questo luogo, con l’aiuto dell’arte, accoglie degli esclusi», ha detto l’antropologo, le cui riflessioni impreziosiscono il volume di quasi mille pagine (Bordeaux edizioni) dedicato al museo.

Quel giorno insieme a Augé c’era anche il vice sindaco di Roma, Luca Bergamo, presenza che è stata vista come una consacrazione. Ora l’inventore del Maam è pronto a fare il salto dalla periferia al cuore delle istituzioni culturali, dallo spazio in via Prenestina al Macro, il museo di arte contemporanea nelle sedi in via Nizza e a Testaccio, che fa parte del nuovo Polo Contemporaneo assegnato all’Azienda Speciale Palaexpo dalla giunta capitolina a 5 Stelle. Le voci si rincorrono e la notizia, che ha già suscitato polemiche nel mondo dell’arte per il curriculum ritenuto inadeguato, viene confermata dal diretto interessato. «Sarò il nuovo direttore del Macro, a partire da gennaio, con un progetto basato sul principio dell’autocandidatura, che ribalterà il mondo dell’arte. Non considero gli artisti tutti uguali, ma ritengo che non spetti né a me né a una istituzione pubblica fare il setaccio delle opere», aggiunge de Finis, che cita “L’arte espansa” (Einaudi), in cui il filosofo Mario Perniola definisce la svolta “fringe” dell’arte contemporanea: tutto può essere trasformato in arte, stravolgendo categorie e certezze.
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CONTAGIO SENZA CONFINI
C’è un continuo gioco di specchi tra periferia e centro. Se il Palazzo del Quirinale ospita una mostra d’arte contemporanea, “Da io a noi. La città senza confini” (fino al 17 dicembre), in cui 22 artisti presentano la loro visione delle metropoli senza confini e senza centro, la letteratura si spinge ai margini della Roma che tutti conosciamo, dove il Tevere crea un’ampia ansa prima di correre verso il mare, fra chiatte, baracche e gli ultimi pescatori di anguille, sotto il ponte di Mezzocammino a Tor di Valle, nella zona in cui forse un giorno sorgerà il nuovo stadio della Roma. È ambientato qui il romanzo “È giusto obbedire alla notte” (Ponte alle Grazie) di Matteo Nucci, dove una comunità fuori dal tempo ha accolto un uomo in fuga, “il dottore”, perché sembra venuto a offrire le sue cure, mentre in realtà deve curare se stesso. Un romanzo denso, con il fiume come sfondo e la natura che accompagna la rinascita dell’uomo attraverso il dolore.

Mentre Roma, quella vera, sempre più degradata e violenta in periferia come in pieno centro, può generare l’incubo distopico di una città fatiscente e decaduta, latrina del mondo, asfissiata dal lezzo di benzina e sudore, sommersa dai gorgoglii delle fogne come nel romanzo “Roma” (il Saggiatore) di Vittorio Giacopini. Protagonista l’abominevole Lucio Lunfardi, ex giornalista che per riscattare decenni di vita da sconfitto libera il rancore accumulato e pianifica la fine della Città Eterna facendola annegare nelle sue stesse acque. Un odio cieco, che il protagonista rivolge verso i visitatori che affollano Fontana di Trevi e dintorni. «Turisti! Li sentiva camminare sulla sua testa, scalpicciare come i sorci, spostarsi in frotta. Le rare volte che sbucava all’aperto - mascherato da prete, o da postino - gli toccava sgomitare tra la folla», scrive Giacopini.

QUEL CHE RESTA DI PPP
Nel suo girovagare arriva a Pietralata quando fa buio il protagonista di “Roma”, torna allo scoperto «nel frascame e nell’umido, faccia all’Aniene e spalle al trabucco già inghiottito dall’impeciar della placida notte pietralatese», tra fischi di serpenti e cani che abbaiano. Fa irruzione nella borgata raccontata da Pier Paolo Pasolini in “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, e poi da Walter Siti nel grande romanzo “Il contagio” (Rizzoli), che per ambientare il post scriptum della nuova edizione, uscita in occasione del film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, ha scelto il Colosseo di Pietralata, anfiteatro di case popolari con al centro una voliera piena di pappagallini gialli e verdi, che l’autore paragona a «un sottoproletario Castel del Monte», dove il professore - l’alter ego di Siti - incontra Mario Ciacci dopo dieci anni.

Un tempo periferia rossa, oggi Pietralata è un quartiere come altri, un blocco di cemento tra via Nomentana e via Tiburtina, tra sfasciacarrozze affacciati sul fiume e opifici trasformati in locali e ristoranti, dove un asilo nido è stato saccheggiato nove volte in poche settimane e i genitori organizzano le ronde. Vicino c’è Rebibbia, dove Zerocalcare abita quasi da sempre, luogo reale e immaginario dei suoi fumetti. Rebibbia come uno dei personaggi del film “La profezia dell’armadillo” (uscirà nel 2018) diretto da Emanuele Scaringi con Valerio Mastandrea, adattamento del graphic novel (Bao Publishing) che ne lanciò la carriera.

Visti con le lenti di oggi sembrano venire da un altro pianeta il Riccetto, il Caciotta, Spudorato e gli altri ragazzi di borgata di Pasolini. Parlano una lingua che già negli anni Cinquanta l’autore definiva inventata, artificiale, e oggi lontanissima. Grande attore ronconiano e profondo conoscitore di Roma, Massimo Popolizio ha scelto di mettere in scena il primo romanzo di PPP in questa visione filologica, senza inopportuni rimandi alla periferia contemporanea e alla lingua impoverita, fatta di pochi vocaboli, parlata oggi dai giovani che vivono ai margini della città. Dopo il successo della scorsa stagione, “Ragazzi di vita” tornerà al Teatro Argentina dal 21 dicembre al 7 gennaio. «Sembra che i romanzi, i film, le fiction tv attingano solo alla Roma delle periferie. Quando però dietro al progetto non c’è un grande artista, il racconto diventa da pianerottolo, senza valore metaforico», riflette Popolizio: «“Ragazzi di vita” possiede un valore universale perché è la storia di alcuni ragazzi che escono dalle baracche e vogliono migliorare il loro livello di vita, si confrontano con qualcosa che non conoscono, non ci riescono e non hanno neanche i soldi per l’autobus per tornare a casa. I luoghi e i personaggi di Pasolini diventano epici anche per chi non conosce Roma, l’unico altro autore che è riuscito a farlo è Walter Siti. Mentre “Romanzo criminale” è la storia di una banda, un romanzo con un grande scrittore dietro, ma rientra nel noir. Pasolini non appartiene a nessun genere».