In famiglia, al lavoro o in tv la vita quotidiana è un labirinto fatto di monologhi. Ma possiamo uscirne. Grazie alla filosofia

Illustrazione di Claudio Sale
Siamo una società di persone che parlano molto, troppo, e ascoltano poco o quasi mai. Questo accade in modo sempre più evidente, tanto sulla scena della comunicazione pubblica quanto nell’ambito delle relazioni quotidiane tra gli individui. Non sappiamo e non vogliamo ascoltare gli altri: ?non rispondiamo alle domande, li interrompiamo solo per prendere noi la parola e tenerla il più possibile.

Si direbbe che ci limitiamo ad ascoltare noi stessi mentre stiamo parlando, ma non accade neppure questo perché, se davvero ci ascoltassimo, avremmo ogni volta ragionevoli perplessità o soltanto qualche dubbio. Ecco dunque una sequela di monologhi, fuori controllo, tra interlocutori che non sono quasi mai tali, insomma tra sordi.

Spiegare una simile paradossale situazione non è così difficile se consideriamo il desiderio prevalente di esercitare con le nostre parole quel potere che oggi è la merce più ricercata e che diventa abitualmente una forma di prepotenza e di prevaricazione. Basta aprire la televisione che attualmente è disseminata di talk show (altro che crisi!): anche il conduttore più avvertito non ce la fa, sempre che voglia, ad arginare i cosiddetti ospiti, per cui abbiamo ogni volta uno spaccato esemplare della società della prevaricazione discorsiva in cui viviamo.

E se, per caso, ci toccasse di essere lì a testimoniare di qualcosa, dovremmo allenarci preliminarmente per infilare qualche piccola prova della nostra presenza nel turbinare e accavallarsi delle voci. E se, poi, con il soprassalto del dormiente, riflettessimo a quanto sta accadendo al di qua dello schermo, ecco una massa di telespettatori passivi e inerti, cioè noi, in barba ai televoti, alle varie tecniche per individuare gli indici di ascolto e a ogni nuovo espediente di interattività.

Indici di ascolto? Ma quale ascolto! Nessuno sta davvero “ascoltando” quei falsi dialoganti che non si ascoltano affatto tra loro e si limitano a parlarsi addosso: se già loro non si ascoltano, quello che fa il teleutente potremmo definirlo in tanti modi, ma non ha nulla a che vedere con un ascolto vero.

La difficoltà consiste, allora, proprio nel capire cosa potrebbe significare “ascolto”, cosa richiede questo gesto, quali condizioni deve soddisfare per essere vero. Nel suo “Zarathustra” Nietzsche presentava i suoi contemporanei come esseri dotati di un enorme orecchio, uomini deformi trasformatisi in questo unico organo di senso, ma che infine non sentono più nulla. Oggi, la nostra deformità non è tanto quella di essere diventati tutto udito, semmai ci stiamo trasformando in un occhio mostruoso dotato di cuffie.

Provocazioni
Gad Lerner: "Il talk show è morto, ormai è solo un dialogo tra sordi"
20/4/2017
Successivamente un altro filosofo, Heidegger, ci ha invitati ad “ascoltare il linguaggio” quasi dovessimo percepire in esso, e soprattutto nella poesia, la lontananza di voci nascoste, solo sussurrate. Questa doppia esortazione filosofica - non lasciare che tutto entri nelle nostre orecchie, non permettere che la nostra vista pretenda di vedere il fondo delle cose - ci può servire da monito: possiamo tradurla in un paradossale “guardare ascoltando”, cioè in un inusuale esercizio che ci permetterebbe di allentare la “metafisica del vedere” (chiamiamola così), introducendo in essa, con grande fatica e scarsa voglia, qualcosa di simile a un correttivo o a un disturbo: non un ascolto di ineffabili origini ormai contraffatte, quanto una possibile lacerazione dello schermo cui sembriamo incatenati, e il tentativo conseguente di sottrarci per un momento, o attraverso una piccola distorsione, allo sguardo che ormai ci osserva di continuo e ovunque. L’ascolto che abbiamo perduto resterebbe così, forse, una potenzialità residua, una possibilità non ancora completamente estinta.

Ma non basta. Essenziale è invece capire, restando alla pratica quotidiana di ciascuno di noi, che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. Il campo di prova è il rapporto con l’altro. Questo “altro” può essere chiunque, quello che incontriamo fuori di casa nelle normali relazioni di vita o per caso, o solo chi sentiamo al telefono: può essere un amico, qualcuno che vive accanto a noi, una presenza costante, ma anche uno che non conosciamo affatto, uno sconosciuto in cui ci imbattiamo. Comunque lui non è noi, non diventa mai un alter ego, risulta sempre diverso, è un diverso, ha qualcosa di estraneo. Ascoltare non significa togliere di mezzo questa estraneità, al contrario c’è ascolto solo quando partiamo da essa e ne teniamo conto, solo se riusciamo a far nostra in qualche modo la sua estraneità, il suo essere “straniero”. Solo se attiviamo in noi stessi una zona di estraneità, per così dire parallela e congruente con la sua.

La filosofia contemporanea, almeno una parte significativa di essa, ha insistito sulla importanza e sulla difficoltà dell’incontro con l’altro, da Lévinas a Derrida (e alla sua scuola, in particolare Nancy) per fare solo due nomi. Forse è proprio Derrida quello che ha più scavato nella questione, indagando, in alcuni dei suoi ultimi scritti, su come può avvenire l’ascolto. Se le condizioni di questo “evento” così poco automatico sono che l’altro “sopravviene” nella nostra vita ordinaria e in certo modo deve produrre uno spaesamento e uno scompiglio, per riuscire ad ascoltarlo veramente - dice Derrida - dobbiamo inventare un gesto di intesa, cercare di sintonizzarci su una tonalità comune.

E ci vuole poco perché l’incontro fallisca se pretendiamo di possedere già da prima questa specie di “orecchio”: è sufficiente una nuance, una sfumatura, un tono sbagliato perché si vanifichi quell’ascolto che sembrerebbe invece ovvio. Derrida ci ricorda l’antico “shibboleth” ebraico, il modo stesso con cui pronunciamo una parola, l’inflessione che adoperiamo, il piccolo gesto del volto o della mano con cui la accompagniamo.

Non c’è neppure bisogno della parola perché una sintonia si realizzi, è sufficiente un atteggiamento di apertura, e spesso il silenzio è più adatto di tante parole a produrlo, come sa bene per esempio chi esercita il mestiere dell’insegnante. Ciò accade in tutte le pratiche in cui l’incontro con gli altri è la posta in gioco della riuscita o dell’insuccesso. Puoi gridare “ascoltatemi!”. O credere che il mantenere la disciplina della classe, in maniera più o meno autoritaria, sia la precondizione perché avvenga l’ascolto. Ma così, spesso, non si dà nessun ascolto e le parole dell’insegnante scivolano sulla testa degli studenti o, alla meglio, vengono travasate, già “morte”, nei loro appunti.

Perché si realizzi un ascolto, occorre dunque mettere in atto una pratica di sé che è molto poco abituale nella società di oggi: bisogna riuscire a scavare una specie di vuoto dentro di noi, procurarsi uno spazio mentale (e anche fisico) attraverso il quale la cosiddetta ospitalità - a propria volta tema molto battuto e altrettanto disatteso nel pensiero attuale - cessi di essere un semplice flatus vocis e diventi la possibilità concreta dell’ascolto dell’altro.

Già, ma chi oggi si assume una simile fatica? I ritmi e i modi di una convulsa quotidianità, la costante accelerazione alla quale siamo indotti, ci sospingono nella direzione opposta. Se l’ascolto è tanto complicato, perché mai affaticarci? E così seguitiamo a parlare e parlare a piccole o grandi platee di sordi, e alla fine diventiamo sordi pure noi. Almeno facessimo lo sforzo di ascoltare quello che andiamo dicendo.