Ironico, tenero, ammaliante, provocatorio. A 150 anni dalla morte, il compositore è più vivo che mai. Come confermano i suoi più importanti interpreti

Ai suoi tempi Stendhal e Mazzini non avevano alcun dubbio nel paragonare la sua fama a quella di Napoleone. Ma ancora oggi se la cava piuttosto bene: da Abu Dhabi a San Pietroburgo, da Pechino alle Americhe, il suo nome nei teatri e nelle sale da concerto furoreggia. Una presenza destinata a rafforzarsi in tutto il 2018, in occasione del 150° anniversario della sua morte: Gioachino Rossini.

Come spiegare la sua presenza durevole, allegra e un po’ inquietante, nelle sale d’attesa degli aeroporti, fra le insegne pubblicitarie che risplendono dai grattacieli delle metropoli? Il musicologo Bruno Barilli nel “Paese del Melodramma” ci ha lasciato una tesi affascinante: in Rossini «la natura imita l’arte».
Bruno Cagli, che in quanto storico e organizzatore musicale è stato protagonista della Rossini Renaissance, non ha alcun dubbio: «L’attualità di Rossini è nella forza e potenza della sua musica». In lui, il genio creativo ha un’incalcolabile forza trascendente. Rossini ci appare, come in alcuni suoi famosi ritratti, grottesco, provocatorio, ammaliante, luminoso, tenero, spirituale. «Il Pesarese affrontò il Belcanto quando stava cominciando a declinare», osserva Cagli,«perché c’è sempre stato il pericolo di perdere le sue regole, che in passato non furono conservate molto bene. Perché in realtà il Belcanto queste norme le ha, e molto precise, collegate anche al fisico che produce questi suoni: e se non sono debitamente rispettate, il Belcanto ne risulta artefatto e non ottiene quello che era nelle intenzioni dell’autore».

La natura che imita l’arte: il canto d’opera assume il suo pieno significato nella voce di un interprete dotato di certi caratteri ben suoi. Una personalità insostituibile, imprevista dall’autore stesso delle melodie ch’egli intona: insomma, un testo e il suo attore in carne e ossa, così eterni, così effimeri. Prosegue Cagli: «La grandezza di Rossini e quella degli altri grandi del melodramma è che quando si va in scena con i protagonisti, ognuno di loro occupa un posto privilegiato di fronte all’autore, detto in senso metafisico e metaforico, e di fronte al pubblico. Ogni interprete è e vive sulla scena con tutta la sua potenzialità che è anche il suo limite, esaltando la specificità di ogni singola voce».

Ma come spiegare il successo di Rossini fra il grande pubblico di oggi? Il compositore Giorgio Battistelli, che a marzo rinnoverà il mito dell’opera con “Wake”, in prima assoluta per la regia di Graham Vick a Birmingham, ha una tesi intrigante: «Anche un pubblico che non segue abitualmente l’opera lirica ritrova in lui quelle strutture drammaturgiche vicine alla visionarietà di un Tarantino. Così gli spostamenti repentini, i colpi di scena imprevedibili. Questa segmentazione dell’attenzione, questa narrazione di caratteri diversi riesce a raccontare storie, farse, tragedie sempre con una forza paragonabile a quella del nostro convulso presente. In lui prevale la dimensione dell’eterogeneità, tipica della nostra epoca. La vocalità di Rossini è quella che lo ha maggiormente caratterizzato, con una dinamica innovativa, moderna: una drammaturgia, appunto, imprevedibile, ricca di forza e di contrasti».

C’è un personaggio contemporaneo particolarmente vicino al temperamento di Rossini: «Le dinamiche politiche di Berlusconi mi ricordano il ritmo drammaturgico del compositore. Un personaggio che riesce ad affiancare satira politica, intrecci amorosi, senso del grottesco, generosità, passioni e visione patafisica. Ma quale altro uomo politico italiano ha queste propensioni, riuscendo a mettere insieme Scalfari e Putin? È un drammaturgo del teatro della realtà, dell’eterogeneità. Come Rossini, sembra che appartenga al passato, e poi improvvisamente ritorna nel presente».

Anche per Paolo Pinamonti, direttore artistico del San Carlo, uno dei segreti di Rossini è l’aver saputo costantemente rinnovarsi, cambiando da titolo a titolo soggetto e modo di raccontare, conquistando così un pubblico vasto e vario. «Soprattutto nel periodo napoletano mutò radicalmente le strutture formali delle sue composizioni passando dal dramma storico di “Elisabetta” a quasi un’opera noir come “Otello”, dalla “Donna del lago” che guarda a Walter Scott al “Mosé in Egitto”, opera oratorio di grande valore civico, quasi prerisorgimentale». Questa varietà riuscì a sperimentare soprattutto a Napoli, perché il pubblico era il più aperto e internazionale che ci fosse in Europa, allora.

Ernesto Palacio, sovrintendente del Rossini opera festival di Pesaro, sottolinea come Rossini sia stato «l’autore che in questi ultimi decenni ha subito i più grandi cambiamenti, perché se noi sentiamo un’esecuzione di Mozart o Puccini di cinquant’anni fa e una di oggi, praticamente non troviamo nessuna differenza, a parte ovviamente l’impronta dell’interprete. Mentre invece con Rossini le cose non sono andate così. Negli anni Cinquanta erano rimasti pochissimi suoi titoli, normalmente i “buffi”. La prassi esecutiva era tagliare tutte le difficoltà, ad esempio colorature e passaggi di acuti, per fare solamente una commedia che divertisse il pubblico. In seguito le cose sono cambiate grazie a Claudio Abbado, Jean-Pierre Ponnelle e Alberto Zedda, che hanno fatto un lavoro di ripristino della partitura e di messa in scena di capolavori come “Barbiere”, “Italiana in Algeri” e “Cenerentola”, così la gente ha capito che c’era qualcosa in più da sapere su Rossini. Poi, negli anni Ottanta, è venuta fuori una sorta di esagerazione acrobatica, si sono scoperti molti titoli, del Rossini serio soprattutto, grazie anche all’impegno del festival pesarese, però con un eccesso di vocalismo dove l’artista guardava lo spartito per vedere dove piazzare l’acuto o quel passaggio che gli veniva bene, più che rispettare lo spirito dell’autore. Infine, grazie soprattutto a due cantanti contemporanei, Cecilia Bartoli e Juan Diego Flórez, ha preso il sopravvento una nuova linea di canto dove il virtuosismo esiste, ma si dà più importanza alla linea melodica, al canto bello voglio dire, con meno isterismi».

Se possibile, Rossini è ancor più amato dai suoi interpreti che dal pubblico. La nuova stella della lirica, il soprano Olga Peretyatko, deve molto alla sua musica: «Grazie ai suoi colori, al suo canto di agilità, ho compreso definitivamente quali fossero le possibilità della mia voce. Tutto è iniziato proprio a Pesaro nel 2006, quando un grande interprete rossiniano come Alberto Zedda mi volle nella sua accademia per interpretare la Contessa di Folleville nel “Viaggio a Reims”. Sono poi seguiti i ruoli di Desdemona nell’ “Otello”, Aldimira nel “Sigismondo”, Fiorilla nel “Turco in Italia”, Matilde di Shabran. Nel 2015 ho voluto rendere omaggio al compositore che forse mi ha dato di più, con un disco d’arie, “Rossini!”».

Anche per il contralto Daniela Barcellona, «affrontare le sue opere è sempre un’avventura affascinante. La preparazione tecnica richiesta è elevatissima, il dominio del fiato deve essere ai massimi livelli, ma la vera sfida è rendere espressiva ogni singola nota (e ce ne sono tante!) e giustificare, dal punto di vista drammaturgico, ogni passaggio e ogni parola. Se poi aggiungiamo che la maggior parte dei personaggi sono degli eroi “en travesti”, ecco che la sfida si fa ancora più interessante per una donna. Ricordo, agli inizi, il lavoro fisico estenuante per rendere scenicamente credibile ogni ruolo: i pesi applicati alle caviglie per appesantire la camminata, la rielaborazione dei movimenti base per renderli “maschili” (come, ad esempio, sguainare una spada, sedersi, scendere da una scala o rivolgersi ad un altro personaggio).

Anche musicalmente l’approccio allo spartito deve essere diverso: è un uomo che canta e, quindi, bisogna far attenzione a quella miriade di particolari che potrebbero risultare fuori luogo, se affrontati in modo femminile. In breve, un gran lavoro “contro la propria natura”». Ma «il fascino del ruolo “en travesti” sta proprio nella bellezza dell’androgino, in quel misto di concretezza e dolcezza che appartiene ad entrambi e a nessuno dei sessi. E con quanta facilità si rischia di finire nel grottesco! Una minima esagerazione ed ecco che l’eroe si trasforma in un fenomeno da baraccone».

Secondo uno dei suoi interpreti più affidabili, Michele Mariotti, direttore musicale del Comunale di Bologna, «Rossini è attuale perché è un unicum nel panorama dei compositori. È un unicum perché ha deciso al massimo del suo successo di smettere di scrivere. E già questo è un gesto di grande onestà intellettuale. È stato sempre contrario a seguire la tendenza che si stava sviluppando: ha sempre preferito filtrare la realtà secondo la propria sensibilità, il proprio linguaggio. Non è vero che si ritirò per la malattia: scientemente decise di “tirarsi fuori” all’apice del suo successo.

Poi ha scritto ancora lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle, inaugurando con quest’ultima un filone che si sarebbe sviluppato nella storia successiva. Se penso all’aria del tenore, posso immaginarla proiettata cent’anni dopo come canzone cantata con la chitarra davanti a un falò. Rossini ha aperto le porte al jazz». È un unicum anche perché le sue composizioni non seguono un ordine prevedibile. «La sua bussola è come impazzita», spiega Mariotti, «non c’è un’evoluzione nella sua produzione. Guardando al futuro scrive “Ermione”, opera di stupefacente modernità, che distrugge i canoni strutturali tradizionali; quattro anni dopo si rivolge al passato, glorificandolo ed erigendo con “Semiramide” la più grande cattedrale belcantistica. È un unicum perché non ha mai cambiato modo di scrivere passando dal genere buffo a quello tragico e ha sempre ritenuto uno l’altra faccia dell’altro. Motivo per cui avrebbe voluto usare, nel finale dell’ “Otello”, la musica scritta anni prima per l’aria di Don Basilio del “Barbiere di Siviglia”. Questo suscitò scandalo, poiché quella era considerata, erroneamente, musica buffa. È un unicum perché guarda i suoi personaggi “con ciglio asciutto”. Da qui la cosiddetta astrazione della musica di Rossini. Che più che astrazione definirei disincanto. Verdi dà un giudizio sui suoi personaggi. Rossini no, non giudica, li osserva da distante. Per questo la sua musica dà la sensazione di qualcosa che non può essere mai colto fino in fondo, determinandone il successo».