Fronte del palco: Nos Primavera Sound, la piccola Woodstock lusitana
I Festival pop più significativi d’Europa - Italia e isole comprese - raccontati dal nostro inviato sul campo, critico musicale di lungo corso. Cominciamo con il festival di Porto che si è svolto dal 7 al 9 giugno. E vediamo quanti voti ha ottenuto
È la succursale portoghese del celebre Primavera Sound di Barcellona. Diciamo pure il fratello più piccolo, considerata l’età (sette anni appena) e la dimensione più raccolta, ma non certo per la qualità dell’organizzazione e della line up messa in campo che lo qualificano, al pari del più grande e consolidato “big brother” tra migliori festival rock nel panorama europeo. Il Nos Primavera Sound di Porto ha richiamato quest’anno più 100 mila spettatori giunti da oltre 60 paesi. Un record mai raggiunto prima. Grazie anche a un menù di strategico appiglio trasversale in cui figurano fra gli altri Nick Cave, Lorde, A$AP Rocky, Tyler the Creator, War on Drugs, Fever Ray, Father John Misty.
PAGELLA (voti da 1 a 5)
Location ????
Organizzazione ?????
Line up ???
Qualità - prezzo ????
Impatto ambientale ????
Servizi & ristoro ???
Acustica ?????
Portale web ?????
Certo, una line-up dice molto su un festival, ma non dice tutto. A fare la differenza, in questo caso, sono stati la gestione dell’evento e la macchina organizzativa. Superato l’ingresso e gli inevitabili controlli, oggi più che mai necessari, la sensazione è quella di essere sbarcati in una spensierata isola anti-stress incastrata miracolosamente nel quotidiano.
Grazie a un esercito di addetti alla sicurezza, alla gestione dei palcoscenici e alla operatività della manifestazione, tutto qui nel Parque da Cidade - una magnifica area verde situata nella periferia industriale della città - è sembrato funzionare a meraviglia. A cominciare dalla qualità acustica, sempre impeccabile sia con il bello che con il cattivo tempo. Altro aspetto fondamentale, il rispetto dell’ambiente, parliamo di distese erbose calpestate ogni ora da migliaia di persone dove non trovi una carta per terra. Si ascolta musica “pogando” furiosamente sotto il palco oppure stesi placidamente sull’erba, ci si abbraccia, ci si bacia, si beve molta birra (a ciascuno il suo bicchiere - 1 o 2 € a seconda della dimensione che saranno restituiti alla riconsegna - un sistema efficace per eliminare la plastica), oppure si fa uno spuntino in uno dei tanti baracchini dello street-food dove, tra un panino gourmet e una grigliata, più che Woodstock e il sogno hippy tornano in mente le feste dell’Unità. Ascoltare tutto è umanamente impossibile, con più di 70 concerti che esplorano la galassia pop in tutte le direzioni e quattro palchi in funzione dal tardo pomeriggio a notte inoltrata, ma grazie a una App, molto pratica e funzionale, scaricabile sullo smartphone, fornita di mappa e orario di ogni evento è stato possibile costruire un percorso e selezionare alcune delle proposte, a nostro avviso, più curiose e interessanti.
LARGO ALLE DONNE In questa settima edizione del Nos è emersa palesemente la volontà di offrire uno spazio privilegiato alle proposte provenienti dall’universo femminile. Un ventaglio molto ampio che va dalle WAXAHATCHEE, la band indie-rock (tre chitarre, basso e batteria) guidata dall’impetuosa Katie Crutchfield al mainstream pop di LORDE. È stata questa 22enne neozelandese, con i suoi melodrammi di periferia declinati in salsa elettro-pop e dal gancio galeotto a conquistare i cuori delle migliaia teeagers che hanno preso d’assalto il concerto. E nessuna che non sapesse a memoria tutte le canzoni. Per farsi un’idea dello spirito post-adolescenziale, selvaggio e necessariamente maleducato che anima le estreme propaggini del punk californiano, invece, basta sentire gli STARCRAWLER. Lei, Arrow De Wilde, voce e talento da vendere, sembra una bionda, magrissima e scatenata reincarnazione di Iggy Pop, lui, Henri Cash, voce e chitarra, è lo sparring partner perfetto.
Lo show più esplosivo ed eccentrico partorito dall’altra metà del cielo in questo festival è stato però quello dei FEVER RAY il duo scandinavo capitanato dalla cantante Karin Dreijer, con il suo immaginario elettronico dark, la sua ironia sovversiva e i testi affilati come lame di ghiaccio. Misteriosa e in parte inspiegabile, invece, la presenza sul Pitchfork Stage, dedicato in teoria alle nuove tendenze, di un gruppo di presuntuosa inconsistenza come le adolescenti e non per questo meno irritanti SUPERORGANISM. Tra le sorprese più interessanti, oltre alla presenza, sempre gradevole, del duo franco-caraibico IBAYI formato dalle gemelle Lisa e Naomi Kaindé, una menzione speciale va a KELSEY LU, giovane cantautrice-violoncellista originaria del North Carolina, per i suoi originali ritratti pieni di grazia e di soul.
L’INVASIONE DEGLI ULTRA CORPI Il più minaccioso, il più magnetico e cattivo rapper in circolazione si è presentato il calzoncini e maglietta con il nome d’arte di TYLER, THE CREATOR, ha un fisico da fuoriclasse del ring e una vaga somiglianza con Tyson, la sua arma letale però non sono in pugni ma le rime al vetriolo sul futuro delle gang di Los Angeles che spara con la velocità di mitragliatore stagliandosi su un cielo stellato in 3D. Al suo confronto, le altre superstar del club, A$AP Rocky e VINCE STAPLE, nonostante la fama da duri, sono sembrati agnellini di zucchero. Non pervenuti tutti gli altri, compresi i nostri rapper griffati che pontificano dai salotti tv.
IL ROCK È MORTO, LUNGA VITA AL ROCK Che sia in grado o meno di interpretare ancora lo spirito del tempo è questione opinabile. Il dibattito è in corso. Per questo, probabilmente, la direzione artistica ha scelto di mettere in campo un ventaglio di proposte piuttosto ampio. Si va dal rock riflessivo dei GRIZLY BEAR, bravi e interessanti oggi come vent’anni fa al l’hard rock funereo dei ZEAL & ARDOR, cinque incappucciati con felpa nera che mescolano blues e black metal con furia selvaggia; dal rock socialmente impegnato dei PUBLIC SERVICE BROADCAST, formazione nerd londinese che usa le proiezioni di film come fondamentale supporto alla narrazione al rock-minimalista dei SHELLAC , agli epigoni del post punk come la band losangelina dei FLAT WORMS senza dimenticare gli adepti della formazione indie-rock canadese degli WOLF PARADE. Tutto decisamente inattuale e dejà-vu, al netto della trasgressione e dell’energia non disprezzabile di quasi tutti i gruppi citati. Poi, l’ultima giornata, dopo il tramonto, mentre il cielo si squarcia e inizia a cadere una pioggia scrosciante sale sul palco NICK CAVE con i fedeli BAD SEEDS. «Ora vi canterò una canzone che parla di una tempesta» dice. E attacca “Tupelo”, un classico, lentissimo blues che con solennità biblica descrive i prodigi atmosferici che hanno preceduto la nascita del Re del rock, mentre la voce dell’officiante scava nelle pieghe oscure dell’anima. E allora capisci che non ce n’è per nessuno. Che Cave è ormai un classico, come Jimi Hendrix, come Gesualdo da Venosa e Miles Davis. E che lui, come tutti i classici, rock o non rock, avrà vita eterna. Per gli altri non garantiamo.