La strana storia di Benjamín Mendoza, il pittore che voleva uccidere Paolo VI
Nato in Bolivia fra prostitute e cocaina, agente dell'Usis, frenetico giramondo dalla doppia personalità, nel 1970 a Manila attenta alla vita del Papa. Un giallo fra il dittatore Marcos e il cardinal Marcinkus, l'ossessione sessuale e l'inferno della galera
Manila, venerdì 27 novembre 1970, le 9.20 di mattina. L'uomo in bianco scende la scaletta del DC-8 Alitalia, rivolge un saluto al presidente delle Filippine Ferdinand Marcos e a sua moglie Imelda lì ad accoglierlo, si avvia sul tappeto rosso tra un'ala di folla festante per un evento mai visto prima, il papa, Paolo VI, Giovanni Battista Montini, giunto nel solo paese d'estremo oriente a maggioranza cattolica. All'improvviso un grido, un coltello, braccia al cielo, gente a terra, una breve colluttazione. Un uomo vestito da prete viene bloccato dalla security e trascinato via su una jeep. Voleva uccidere il papa! Sul coltello, comprato in un negozio di souvenir, è inciso in spagnolo «religione, oppressione, superstizione, merda».
Chi è l'attentatore? Filtra un nome, Benjamín Mendoza. Boliviano. Pittore. Un pazzo, ha agito da solo, dice a caldo la polizia. Un complotto, probabilmente anarchico, insinua Edgar Hoover, l'onnipotente capo dell'Fbi. E se invece fosse la Cia? Che ci va a fare a Hong Kong, subito dopo Manila, questo papa “pellegrino volante”, vuole forse aprire alla Cina? Nessuno scopre, per quattro decenni, che in gioventù l'attentatore aveva davvero lavorato per l'Usia, potente agenzia americana d'intelligence.
Non è l'unica cosa che di lui si ignora. A dirla tutta, nessuno si prende la briga di scoprire di più sull'attentatore. Altre sono le preoccupazioni. Chi s'è interposto nell'istante cruciale tra Paolo VI e la morte? Marcos in persona con un colpo di karate, dichiara sua moglie Imelda, ribaltando l'imbarazzo di un regime corrotto e megalomane in mitologia del presidente della provvidenza che salva il vicario di Cristo. No, il merito è di Paul Marcinkus, certificheranno in seguito Bbc e wikipedia, che grazie a quell'atto comincia la sua scalata al potere vaticano fino allo Ior. In realtà Marcos era qualche metro distante dal papa, Marcinkus non era lì e con tutta probabilità neppure a Manila, le coltellate di Mendoza alla giugulare scivolano a destra e a sinistra sul collare che il papa indossa per via dell'artrosi, e se qualcuno s'è messo in mezzo è il segretario personale di Montini, Pasquale Macchi: ma che importano i fatti quando a scrivere la storia sono le narrazioni?
Finché, qualche anno fa, non s'imbatte nella vicenda uno studioso anomalo, per trent'anni ordinario di Letteratura italiana in vari atenei, con la vena dell'indagine minuziosa, il gusto della scoperta, la penna dello scrittore anche di romanzi: Sergio Campailla.
BENJAMIN E IL SUO DOPPIO Di vite ignorate, ciascuna a suo modo straordinaria per profondità o abissi, Campailla ne ha già rimesse insieme almeno un paio. Quella di Carlo Michelstaedter: a lui si deve la riscoperta del filosofo goriziano morto suicida nel 1910, la catalogazione dei suoi quadri e disegni, la pubblicazione delle opere complete con Adelphi e, sull'Espresso lo scorso febbraio, l'uscita delle sue inedite poesie giovanili. E siccome il filo di una storia ne tira con sé altri, in Il mistero di Nadia B. ridà nome, volto e spessore d'esistenza all'ebrea russa, anarchica, moglie di una spia zarista, coltissima, artista, beniamina della nobiltà fiorentina, suicida, che di Michelstaedter fu l'amante sognata sulle rive dell'Arno. Qui, nell'articolo, è lo stesso Campailla a raccontarci com'è inciampato nella vita di Mendoza, ne ha rimesso insieme i tasselli, nel 2016 con Marsilio ha pubblicato Wanted e, in seguito, è venuto in possesso dell'altra metà delle sue carte, testi, lettere, disegni: ne pubblichiamo qui un'ampia e inedita galleria. Chi è dunque Benjamín Mendoza y Amor? Da dove viene, perché tenta di uccidere il papa, e che ne è di lui dopo quel gesto?
La storia comincia, nel 1935 ma l'anno di nascita non è certo, sulle altitudini di La Paz, capitale della Bolivia, tra le baracche del barrio di Ch'ijini, habitat di spacciatori e di curatori yatiris che nelle foglie di coca leggono il futuro. Benjamín è un indio di etnia aymara: il popolo della coca, antichi rituali magici e medici, una lingua che rispetto alle nostre rovescia il rapporto tra passato e futuro. Ultimo di quattro figli, pater incertus, sua madre è una prostituta. La detesta, per questo, ma è grazie a lei che, adolescente, studierà al salesiano Collegio Ayacucho, lo stesso di undici futuri presidenti e ministri. Un'anomalia, in un paese che all'epoca attua una politica contro l'alfabetizzazione di indigeni e donne, ma strano lo è già di suo: bambino, gli regalano dei pastelli e lui disegna scene cruente, un incidente, una ruota che stritola, un cane morto. Non bastasse, usa indifferentemente la destra e la sinistra: nella credenza popolare, un figlio del Diavolo, doppia personalità, come se avesse due cervelli. Lo farà per tutta la vita, a seconda delle situazioni e della disposizione spirituale: per Campailla, «un sintomo di quella che la letteratura scientifica chiama Did, Dissociative Identity Disorder, metafora del suo dualismo interiore e della sua swinging life».
UN UOMO IN FUGA L'aspetto fisico è da indio tipico: alto 1.64, carnagione ramata («pelle di cane», scriverà), capelli corvini, occhi marroni, naso aquilino, zigomi sporgenti, niente barba. Fa il servizio militare in una divisione blindata, s'iscrive all'Universitad Mayor de San Andrés, facoltà di Architettura, arti e disegno, lascia quasi subito perché, scriverà, «l'arte io ce l'avevo nelle mani». Difficile capire che ci faccia uno come lui, biennio 1952-53, tra i cadetti del Colegio Militar de Aviación di La Paz, ma il senso di libertà del volo gli entra nell'anima, lui che in un cupo disegno di catene fra due ossessivi edifici del potere civile e religioso annoterà «il vero significato della libertà non esiste». La fuga, quella sì. In Argentina. Qui, per partecipare a un concorso letterario, aggiunge “y Amor” al suo cognome, più tardi anche “Flores”. S'iscrive alla Escuela de Bellas Artes di Buenos Aires ma lascia in fretta anche questa. Siamo al 1959, ha 24 anni e il successo in tasca: partecipa come rappresentante della Bolivia alla quinta Biennale d'Arte di San Paolo, si proclama surrealista, espone in varie gallerie, dipinge murales. E viaggia. In lungo e in largo per tutti i paesi dell'America latina. Non si fermerà più: Nord America, Hawaii, Asia, Africa, Europa, un viaggiatore compulsivo, lo seguiremo. Da solo, sempre. Né compagni di viaggio né donne fisse, mogli neanche a parlarne. In anni in cui volavano solo i ricchi, jet set viene di lì, lui salta da un aereo all'altro. [[ge:rep-locali:espresso:285318016]] Chi paga? Vagliate varie ipotesi, Campailla scopre che già a La Paz Mendoza lavorava per l'Usis, poi Usia, United States information agency, e accredita la versione che a pagare fosse proprio la potente e ricchissima agenzia di propaganda anticomunista nel mondo creata nel '53 da Eisenhower: il suo status di pittore, scrive, «gli procurava una copertura credibile, poteva infiltrarsi negli ambienti sovversivi, di intellettuali artisti anarchici idealisti rivoluzionari e quant’altro»: personalità multipla, Mendoza poteva benissimo «fare il doppio gioco in politica con la stessa disinvoltura con cui disegnava a piacere con la destra o la sinistra». Tale ipotesi non esclude l'altra, che su quegli aerei, corsie privilegiate con la copertura Usia, trafficasse droga: lui in mezzo alla coca era nato, ne faceva uso abituale, la rappresentava nei suoi quadri e disegni.
SESSO, MEGLIO SE LAIDO Doppio, «carente di tabù» come lui stesso si definisce, nel '62 della crisi di Cuba e del mondo appeso a un filo, eccolo a illustrare Tutto era sudicio, il libro perverso e blasfemo del latifondista playboy rivoluzionario ed erotomane Raúl Barón Biza, suo nuovo sodale: immagini di guerra, morte, schiavitù, povertà, il potere con un blocco di ghiaccio al posto del cuore, e sesso, ovunque, meglio se laido. Ma è con i soldi e il patrocinio della Asociación Cristiana de Jóvenes di Buenos Aires che, l'anno appresso, Mendoza arriva negli States. Immigrante, non con un permesso provvisorio. Addirittura due prestigiose personali in contemporanea a New York e Parigi, e mostre a Boston, Chicago, Washington, Los Angeles, Honolulu. Nelle Hawaii si ferma tre anni. Visita Pearl Harbor. Disegna gouaches, suggestioni native, animali, bambini. Una foto lo ritrae nel verde, sorridente, in mano il disegno di un ballerino in gonnellino. Un artista ben sistemato, venduto e beato. Mancano meno di tre anni all'attentato a Paolo VI.
Che succede in quei tre anni? Nel '67 è a Tokio. E a Hiroshima. Va e viene. La Taiwan di Chiang Kai Shek. La britannica Hong Kong. E Canton, Cina comunista. O è molto bravo a sgusciare ovunque o trova porte aperte dappertutto, con la guerra in Vietnam al suo apice.
DOLCE VITA A MANILA E' il 1969 quando arriva a Manila, la caotica metropoli capitale delle Filippine, povertà, droga, corruzione, rivolte studentesche e repressione, al potere dal '65 Ferdinand Marcos e sua moglie Imelda, la signora che quando verranno cacciati in esilio si scoprirà aver cumulato 2700 paia di scarpe di lusso in un paese alla fame. Per Mendoza, prestigiose personali anche alla Biblioteca Nazionale e articoli su di lui in prima pagina, altro che giunto tre giorni prima dell'attentato al papa, come la polizia dirà a caldo. A Caroline Kennedy del Daily Mirror che lo intervista agli Indios Bravos, il caffè letterario dove s'incrociano politici, artisti, diplomatici, poeti, prostitute e spioni, attacca un bottone sull'infelicità delle donne mentre la Chiesa prospera. A Jolico Quadra del Manila Chronicle snocciola la sua teoria sulla missione dell'artista, tenuto ovunque vada a raffigurare la povertà, il disperato che cerca cibo nei rifiuti, la prostituta che sfama madre e figli, il mercato dei cani e i combattimenti dei galli, contro l'ipocrisia delle parole e delle convenzioni sociali. Vietnam, un acquerello, mostra un uomo sbudellato crocifisso a testa in giù. Scrive un romanzo, Sopra le ceneri gialle di Saigon, vietato, poi perduto. Bisogna denunciare. Agire. Scuotere le coscienze. Un gesto. Basta un gesto. Il 27 novembre Benjamín Mendoza si camuffa da prete e tenta di accoltellare l'uomo in bianco.
IL GIOCO DELLE PARTI Il dopo è una sarabanda di declamazioni, ritrattazioni, recite, piccoli opportunismi nelle pieghe degli altrui giochi di potere. Lo interrogano per dieci ore: «Non ho complici, nessuno sapeva, volevo salvare l'umanità dalla superstizione», ripete. Lo portano davanti a una folla di giornalisti: «Se potessi lo rifarei!». Poi, ambiguamente, quello per cui l'hanno portato lì: «Ho pensato che a salvarlo fosse stato il presidente Marcos». Ma già il giorno appresso cambia versione: «Non volevo uccidere, era un assassinio simbolico, il coltello era di gomma, quello vero l'avevo alla cintola». Uno sfasato, è chiaro. Al National mental hospital lo sottopongono a trattamento farmacologico. Poi lo trasferiscono al Bilibid di Muntinlupa a Rizal, il penitenziario dove finiscono i delinquenti più pericolosi e i dissidenti da eliminare. A New York la galleria Duncan allestisce con tempismo una mostra di suoi acquerelli in magazzino: «Sotto l'egida dell'Unicef», annota ironico il visitatore Giulio Andreotti in A ogni morte di Papa.
Il processo dura quattro mesi. Mendoza si presenta in un'uniforme militare americana istoriata da scritte contro Nixon e il Vietnam. Ride, sogghigna, s'appisola quando la sceneggiata lo annoia, distribuisce collant di nylon alle giovani stenografe, punch e bicchieri di plastica per festeggiare il suo compleanno, porta in aula una piccola bara e un giorno, all'uscita, brucia la Bibbia in dotazione a ogni detenuto. Si dichiara «perfettamente sano di mente» e «non colpevole». Stupefacente la sentenza, il 21 aprile del '71: colpevole di tentato omicidio, ma il coltello era di gomma, nessuno è rimasto ferito, lui dovrà essere sottoposto a «un processo di riabilitazione e rieducazione religiosa», quanto alla pena è, sta scritto, «indeterminata»!
IN GALERA ALL'INFERNO Nel penitenziario di Bilibid, all'inizio, si deve guardare le spalle, qui anche i delinquenti sono cattolici ferventi. Perde venti chili. Ma tempo qualche mese e festeggia il 37esimo compleanno, vero o finto, con la visita in galera dell'intera comitiva degli Indios Bravos, Caroline Kennedy, artisti, scrittori, poeti, persino una cugina di Imelda Marcos. Scrive poemi, sul suo «sogno psichedelico ultramarino» di eliminare Nixon e il papa, dispensatori di inutili preghiere e letali proiettili. E fa ciò per cui è nato: disegna. Di alcuni pastelli, regalati a un giornalista che lo ha intervistato in carcere, si sapeva: la madre prostituta in posa oscena e allegoria di morte, il pupazzo del papa avvolto in filo spinato in groppa a Satana, sette tavole sull'attentato. Ma il corpo più consistente è quello rinvenuto da Campailla dopo la pubblicazione del suo Wanted. E' anche il più sconvolgente. Niente allegorie, ancorché ripugnanti. Solo la nuda brutale realtà delle carceri di Marcos. Detenuti che si masturbano, si tatuano, alla visita medica, al lavoro, al bagno, nel braccio della morte. La follia, la droga, il sesso, l'abbrutimento, i traffici indegni, come il recupero e la vendita di un pregevole tatuaggio dal cranio di un condannato appena finito sulla sedia elettrica.
Intanto il papa lo ha perdonato: allora perché non mi fate uscire?, chiede spavaldo. Si mobilitano per lui una fantomatica brigata anarchica Marquis De Sade e a Chicago il gruppo surrealista della rivista Arsenal. Lo rilasciano il 13 giugno 1974, tre anni e mezzo dopo l'attentato. Per buona condotta. Ma ormai è un appestato, un indesiderato.
CRIMINI E BORDELLI Lo obbligano a tornare in Bolivia. Scopre solo allora che, alla notizia dell'attentato, una folla inferocita aveva linciato sua madre e i suoi fratelli e bruciato la loro casa. Per colpa sua. Il rimorso devasterà il resto della sua vita. Racconta di un tentativo di ucciderlo con due coltelli. Vero o inventato che sia, è e si sente un uomo braccato. Si nasconde sulla Cordigliera delle Ande. Dipinge. Almeno quaranta tavole. Donne aymara che coltivano la coca, la trasportano sui sacri llama, la masticano nelle pause. La coca è sostentamento, sapienza, rito e identità. Lui lo sa benissimo, non ha mai smesso di farne uso e traffico. Né pone fine a un peregrinare ormai coatto, patologico. In Brasile, perso per sei mesi nei territori indigeni interdetti della foresta amazzonica, a nutrirsi di lucertole e caimani alla brace e ritrarre volti e ornamenti di tribù oggi in parte scomparse. A Rio, favelas, strip-tease e bordelli e, verseggia, «nella bilancia del Carnevale delizie e dolori come nell'ingranaggio che macina destini». A Caracas, circo, corride e miss Venezuela, non si fa mancare niente. Troppo piccolo, un solo continente. Via Madrid, nel '75 lo troviamo in Marocco, Tunisia, Libia, a disegnar cammelli nel Sahara e nudi di donna di un voyeurismo esasperato, prostitute, danzatrici del ventre, ancora c'erano, ai tempi.
Doppio com'è, Mendoza, in altre opere quei corpi leggiadri e invitanti li farà a pezzi: seni, vagine, peni incastrati con bare, processioni, teste di Hitler, stalloni e serpenti, la fenomenologia di un eros dell'orrore, perché «amore è voce che canta nuovi crimini», annota su un disegno. Ma è la successiva la tappa che sbalordisce: Roma! La città del papa. Che, siamo nel 1977, è ancora Giovanni Battista Montini, Paolo VI, l'uomo che Mendoza ha tentato di uccidere, 7 anni prima, a Manila. Ci vivrà indisturbato, esponendo e pubblicando, fino a quando nell'81 sarà costretto a fuggire. Ma qui la vicenda del pittore maledetto e assassino mancato s'incrocia con quella di colui che diventerà il suo biografo, Sergio Campailla: storia di una doppia scoperta e di una ricerca partita da un magazzino in via Muzio Scevola, zona popolare di Santa Maria Ausiliatrice.
Benjamín Mendoza morirà il 2 agosto 2014 a Lima, Perù, dove s'è rifugiato dall'89. Solo, malato, dimenticato, nella stanza di un ospizio statale per anziani.