Il buio che non arriva mai. Il bianco intorno. E un'estate insolitamente calda. Kemijärvi è un'allucinazione

La mia amica Kersti Juva, traduttrice di Shakespeare in filandese, mi guarda con occhi sgranati: “Ma perché vai a Kemijärvi? Quel posto è la fine del mondo”.
L’autobus ci sballotta in una strada ariosa fiancheggiata da boschi, la versione artica della “strada perduta” di Lynch: senza confini evidenti né elemento umano.
Arriviamo in un luogo sguarnito, disseminato di insegne scolorite e locali abbandonati. La chiamano “città”, ma non somiglia al nostro concetto di città. In fondo la città, come la famiglia, è tutto ciò a cui assegniamo il compito sia prosaico che simbolico di contenerci.

Viaggi e scrittura
In Lapponia, dove nascono le parole
5/9/2018
La Kemijärvi Artist Residence, uno dei pochi edifici sopravvissuti alla guerra, è diversa dalle altre residenze per scrittori in cui sono stata. Sale semivuote che ricordano gli spazi allucinati di Fuori Orario di Scorsese: ovunque sculture in legno semiastratte, visi senza occhi e arti tronchi. Creature interrotte, paralizzate a metà di un gesto. Una piccola sauna e poi il nostro appartamento: luminosissimo.
Sdraiata sul divano aspetto con mia madre il tramonto, previsto alle ventidue, ma non accade: il sole resta incagliato in mezzo al cielo grigio, un artiglio di luce in mezzo a una quasi-sera. Questa luce perenne mi farà impazzire. Siamo abituati a specchiare le alternanze del corpo su quelle del cielo. Così, in un giorno eterno senza oscurità, quel tempo solare che sentivamo anche nostro si scolla da noi, rivelando ciò che non vorremmo mai sapere: che il nostro tempo- quello della percezione e del ricordo, della somma caotica di vita e racconto che fa l’identità- non è altro che uno scenario intimo personalissimo e un po’ disturbato, qualcosa che si accorda con il mondo naturale solo per caso e a secondo della latitudine.

Mi viene in mente Tehching Hsieh, l’artista taiwanese che per un anno, dal 1978, si rinchiuse in una cella visibile dall’esterno in cui si impediva di fare qualsiasi cosa, così da rendere nudo il tempo, in una trasparenza che potrebbe sembrare abbrutimento ma è solo la vita spogliata dal commento umano, quella che i buddhisti chiamavano tathata, la “questità” delle cose.

Il giorno dopo esco presto: non ho dormito a causa della luce. Cammino per ore. I negozi vendono solo roba usata, come se in questo lembo di vita tra la taiga e la civiltà arrivassero solo gli scarti degli altri: oggetti che hanno preso la forma di altre vite e poi l’hanno lasciata andare, asceticamente, ripiegandosi su se stessi con pietosa sformatezza. L’unico negozio che vende ed espone con cura articoli nuovi è una bottega di decorazioni cimiteriali. Angeli in marmo dallo sguardo assente, fogliame, lapidi fiammanti. Sul lago Kemijärvi mi si avvicina un bellissimo ragazzo. Fuma, è ubriaco, ha occhi afflitti e sottili. Sono le dieci di mattina. Intorno a noi, sui sassi rosa, riposano le renne: splendide, sconvolte dalla calura, si gettano a bere sulle acque argentate. Sono renne civilizzate, abituate alla vicinanza umana e alle poche auto che passano in strada. D’inverno la gente dà loro da mangiare, d’estate- soprattutto in un’estate insolitamente calda come questa- vanno al lago a bere e a bagnarsi.
“Scusa- dice il ragazzo- se ti sono venuto incontro così. È che non ci sono abituato. A vedere persone in giro.”
Gli chiedo dove sono gli altri. Sorride, risponde che la gente sparisce di continuo. Che un giorno ci sono, quello dopo no. Che prendono un autobus per Rovaniemi e non tornano più. Quelli che restano non escono mai di casa. “E tu”- gli chiedo- “perché sei rimasto?”
Lui fissa il vuoto e mi risponde in finlandese, lingua lontana dalle rassicuranti radici indo-europee, dunque non saprò mai cosa mi ha detto.
“Dove andate a divertirvi, tu e i tuoi amici?”
“Non ho amici. Ho solo mio fratello, che ha tredici anni. Ce ne stiamo qui sul lago a bere, a fumare. Aspettiamo che arrivi qualcuno. Non arriva mai nessuno.”
“Non fai sport?”
“Vado a caccia. Sparo ad alci e uccelli con le mie cugine, a qualche chilometro da qui. Mio fratello non viene perché non ha ancora la licenza.”
Tira un’ultima boccata e getta la cicca nel lago.

Comincio a riscontrare, nell’amore simbiotico dei lapponi per la loro meravigliosa natura, delle lievi sfumature predatorie: la spazzatura gettata su laghi e siepi, la caccia, e poi non c’è obbligo di raccolta differenziata. Il ragazzo mi saluta e si allontana sul pontile. Un attimo dopo, in controluce come uno spettro, appare una donna: imponente, capelli neri, giacca color sangue. Brandendo il cellulare come un’arma, si avvicina alle renne fotografandole a raffica fino a farle scappare. Inviperita le urlo: “Lasciale stare!” e lei mi risponde: “Sono un mandriano di renne, faccio quello che mi pare”.
Qualche ora dopo torno al lago a prendere un caffè con Pirkko, insegnante d’inglese in pensione, in una caffetteria di vetro che resta aperta solo dalle dodici alle quattro, con nostalgici tavolini shabby-chic e tonnellate di corna di renna affastellate negli angoli. Entro e scopro che il gestore è la donna delle renne: c’è un momento imbarazzante di sorrisi nervosi che tentano di diventare amichevoli. Ci sediamo. Pirkko mi dice che è una donna strana, ma buona. Le chiedo delle renne, i suoi occhi bluastri si accendono di fastidio. “Le caccio via perché la gente si lamenta. Urinano nei laghi, distruggono i giardini”. Scopro che tutte le renne qui sono private. Gingilli remunerativi. Ogni anno, in autunno, vengono radunate. È la stagione del calore, e quelle giudicate non in grado di produrre prole sana vengono contrassegnate e destinate al massacro. Di solito le più giovani. Una dopo l’altra vengono fulminate con l’elettricità. Delle loro salme si prende tutto: la carne (quella più giovane è più buona), la pelle, le corna. Alcune non vengono mai ammazzate: sono per i turisti che pagano il giretto folkloristico sulla slitta. Ma questo a Rovaniemi, che va di moda: a Kemijärvi non c’è turismo.
Pirkko dice che qui nessuno vuole aprire locali o altro: per pessimismo, apatia, sfiducia nel futuro. Mi indica il cantiere alle nostre spalle, dietro le vetrate: “Stanno costruendo un altro ospizio. Costruiscono solo ospizi”.

Dietro i vetri, dietro l’ospizio e una grande fabbrica di congelatori, il cielo si prepara al suo tentativo di tramonto. Le nuvole sono carnose, rosa scuro, sempre più scuro. La caffetteria chiude, Pirkko sfreccia via in bicicletta. Io nonostante la luce sono finalmente esausta, cammino lentamente verso casa, le renne sono tutte sparite.