A un anno dalla morte di Bertolucci, l’archivio di Stato di Bologna ha recuperato le carte del processo che portò alla condanna del film. Uno squarcio su un Paese diviso. E su un meme che dura da mezzo secolo

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C’era una volta, in un passato non troppo lontano, un panetto di burro.

C’era e c’è un immaginario che, nel corso di una svolta di secolo, si è declinato in infinite forme, seguendo le anse di un fiume, quello della Storia, sempre più accelerato e sopra quelle anse noi, soggetti a una velocità insidiosa, tra ostacoli di ogni tipo e una moltitudine di svolte improvvise.

Guardarsi indietro può sembrare a tratti impossibile, oppure l’unica risorsa rimastaci per capire dove stiamo andando. La navigazione è perigliosa, si procede a vista.
La cultura, differentemente dall’informazione, ha bisogno di tempi più lenti. Ha bisogno di fermarsi a studiare la mappa per intuire qualcosa del pur cangiante territorio, per ritrovarvi quei “vorticosi souvenirs” (come li chiama Hans Magnus Enzensberger nel suo vertiginoso “La fine del Titanic”) che sono poi frammenti di quello che, immediatamente alle nostre spalle, ci dice perché siamo arrivati nel punto in cui ci troviamo.
Sono come tessere di un puzzle che già sappiamo essere interminabile. Pure, sono preziosissime. Come il panetto di burro a cui abbiamo accennato all’inizio.
Memoria
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Quel panetto di burro, come i residui di una civiltà troppo piena di merci che tanto bene ci hanno illustrato Samuel Beckett in letteratura e Jean Baudrillard nella riflessione filosofica, ci racconta qualcosa di noi e, come un vero reperto archeologico, più lo si studia più diventa testimone di un mondo intero, che ancora, e nient’affatto poeticamente, abitiamo.

Il panetto di burro in questione è ovviamente il meme che ha perpetuato nei decenni un film controverso e di cui l’Archivio di Stato di Bologna ha raccolto, in due ponderosi faldoni, tutta la documentazione relativa ai processi che ha subito, agli strascichi che nel frattempo si affastellavano sui giornali e nelle lettere ricevute dalla magistratura. Documenti processuali e testimonianze individuali (recuperati e riordinati dall’archivio di Stato di Bologna, che li ha appena messi a disposizione del pubblico) attorno al caso di un film, “Ultimo Tango a Parigi”, che ha costituito una sorta di multiforme punto di fuga prospettico dal pensiero comune, intrecciando (come forse solo “L’impero dei sensi” è parimenti riuscito a fare), le più profonde tematiche dell’arte con la sessualità esplicita, ed in quel termine, “esplicita”, si fa largo quello che, diceva un altro grande regista, Luis Buñuel, potremmo definire “l’oscuro oggetto del desiderio”: oscuro perché non perfettamente visibile, perché “proibito”, o perché, come nell’attacco del capolavoro dantesco, foriero di chissà quali mostruosità?

Proviamo a rispondere attraverso quell’ormai proverbiale panetto di burro, all’intero mondo che ne ebbe un’origine scontornandolo dal suo contesto.

Siamo nel 1972. Il 14 ottobre, “Ultimo tango a Parigi” viene proiettato integralmente in anteprima mondiale a New York e, in anteprima europea, a Parigi. Il giorno dopo approda in Italia, all’interno della Mostra internazionale del cinema libero al cinema Kursall di Porretta Terme. Ne sono protagonisti Marlon Brando, fresco di Premio Oscar per “Il padrino”, e una bellissima Maria Schneider. Il film ruota attorno all’incontro fatale tra i due durante la visita di un appartamento in affitto, dando luogo a una serie di incontri a carattere esclusivamente sessuale, come a precludere tutto ciò che non sia disperatamente piacere o, meglio, direbbe la psicanalisi lacaniana, godimento. Potenti emergono le personalità dei due protagonisti: la loro fuga sensuale dal mondo è disperata ricongiunzione (carnale) di fronte a una disperazione esistenziale che Bernardo Bertolucci tratteggia con incredibile poesia, degno erede del padre, il poeta Attilio.

Ma lo stesso giorno fioccano da parte di alcuni spettatori le denunce per il contenuto “osceno” dell’opera. Tanto che sei giorni dopo il sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Roma predispone il sequestro di tutte le copie. Il caso viene passato a Bologna per competenza territoriale e parte così una vicenda processuale (che nel frattempo diventa sociale) che andrà avanti fino al 1976, attraverso i tre canonici gradi di giudizio, con interventi di filosofi, artisti, autorità di vario tipo e di tanta gente comune attorno a quello che diverrà il perfetto caso di “attentato al comune senso del pudore”.

Il comune senso del pudore.
Una sorta di araba fenice che risorge dalle proprie ceneri in differente guisa con frenetica, multiforme sembianza, quasi non fosse la stessa creatura. Anche perché, in effetti, indeterminata com’è, appare ogni volta irriconoscibile e non solo: da tutti diversamente interpretabile.
Leggendo i faldoni che ne riportano le accuse e le difese, si avverte quasi l’impressione di scivolare nell’impossibilità di una definizione. Perché il senso del pudore non è “comune”. Vi si prova in tutti i modi, ad afferrarlo, tra le carte processuali, definendolo come “ciò che può turbare l’integrità morale dell’uomo medio”, che è poi dire tutto e niente. Non esiste “uomo medio” e non esisteva certo in un momento storico in cui istanze di segno contrario ancora si scontravano violentemente in nome dell’eco sempre più flebile di un Sessantotto del quale uno dei motti più celebri fu, guarda il paradosso, “Vietato vietare”. Pare, sfogliando le migliaia di pagine ormai ingiallite delle fasi processuali, che il caso vertesse sulla scissione tra arte e pornografia.
In quegli anni, nell’editoria accadde qualcosa di diverso. La scissione non fu tra arte e pornografia, ma tra informazione e pornografia. Diversi giornali (tra tutti, ABC, Men e Le ore) alla fine degli anni Sessanta iniziarono a includere nella cronaca (nera e rosa) anche una sempre più esplicita esibizione visiva dei “fatti”. Ma solo con “Ultimo tango a Parigi” emerse in modo esemplare il contrasto tra l’esibizione dell’atto sessuale e la sua liceità di essere reso pubblica.

Arte e edonismo. Masturbazione e diritto di cronaca. Preservazione di valori cristiani versus liberazione dei costumi e, non ultima, la pressione di un business oggi divenuto planetario.
Nei tre gradi di processo, il punto su cui accusa e difesa di “Ultimo tango a Parigi” fanno maggiormente leva è il diritto dell’arte di esprimersi liberamente, scontrandosi con ripetitività, in una sorta di paradossale minuetto ideologico, su cosa quella “libertà” comporti. Le infinite citazioni di artisti del passato che hanno rappresentato in letteratura e nelle arti visive si stempra in continuazione in un improbabile ed in effetti irrisolvibile ricerca di una “linea di demarcazione” tra arte e pornografia, saldamente ancorati a quel “nescio quid” di Benedetto Croce intorno ai criteri ultimi di distinzione tra arte e non arte, lasciati infine in mano a un’autorità che ne stabilisse a proprio piacere i parametri.

Perché “Ultimo tango a Parigi” era e rimane davvero un’opera d’arte in cui il sesso estremo è intrinsecamente legato all’intero prodotto. Vederlo ridotto a una sequenza di carte bollate, di disquisizioni zoppicanti sul diritto di un pubblico adulto (il film venne subito classificato come “X”, e quindi per adulti) rivela quanto fosse immatura e confusa la classe dirigente di quegli anni. Confusa e spaventata. In un breve stralcio dell’accusa, si legge che il film può addirittura istigare, con la sua licenziosità, al divorzio e all’aborto.
Appaiono così (nelle carte indirizzate ai giudici che, in appello e in Cassazione, condannarono l’opera), lettere come quella della “famiglia normale” che ringrazia per il loro operato «rispettoso di una sana moralità cristiana contro le degenerazioni del mondo moderno». Dall’altra parte, in un’altra lettera pubblicata sul Corriere della Sera nel 1976, una sedicente «ragazza normale» condanna «il bigottismo degli adulti, sempre più lontani dalla realtà» …
La realtà.
Riprendiamo quella del film. Il 2 febbraio 1973 la sentenza di primo grado assolve tutti gli imputati (che sono poi quattro: il produttore Alberto Grimaldi, il regista Bertolucci e i due attori, Brando e la Schneider) e il 4 giugno 1973 si va in appello, annullato alla fine dello stesso anno per difetto di motivazione e di nuovo istruito l’anno successivo con condanna di tutti gli imputati a due mesi di carcere e al pagamento di 30 mila lire ciascuno, oltre alla confisca di tutte le opere sequestrate. Nel 1976, la Corte di Cassazione conferma e condanna gli accusati a pagare tutte le spese processuali e a versare non più 30 mila ma 100 mila lire a testa, oltre alla distruzione di tutte le copie del film (a parte tre, consegnate alla Cineteca nazionale).
Bertolucci nel frattempo scrive a Giovanni Leone, allora Presidente della Repubblica, implorando la grazia, senza ottenere risposta e perdendo per cinque anni i diritti civili.
Nell’arco di tempo del processo Gola profonda (pellicola basata sulle vicende di Linda Lovelace che, avendo il clitoride in gola, attraverso una serie di superesplicite e variegate vicende cerca di risolvere il suo problema) diventa il film più visto di tutti i tempi (fino a essere superato da E.T.), i “cinema a luci rosse” diventano un terzo del totale e le riviste esplicitamente pornografiche hanno un boom (nel 1976, Le Ore è la quinta rivista più venduta d’Italia).

Nel 2018 la Cineteca restaura l’opera sotto la cura di Vittorio Storaro (già autore della fotografia del film) e oggi è tornato finalmente, e pacificamente, quello che è sempre stato: uno dei capolavori della storia del cinema e, al contempo, un sempre più logoro ma vitale meme: quanti lo conoscono (non il film, ma il meme) per averne visto la parodia di Ultimo tango a Zagarolo? Ancora, a passare è quel panetto di burro, questa volta non usato per favorire un rapporto anale ma divorato.

Nel 2019, anno in cui sono presenti in rete più di 5.000.000 di film pornografici, buona parte dei quali esplicitamente dediti a perversioni inguardabili tali da ricordare il Pasolini delle 120 giornate di Sodoma, l’intera vicenda appare grottesca e amara.
Con un unico antidoto: guardare “Ultimo tango a Parigi” davvero. Per il capolavoro che, burro o non burro, è e rimane.