Cresciuto in una banlieue da dove le piroghe partivano verso l’Europa, Babacar ha fondato una band. Il successo lo ha portato in Belgio. Ma lui ha deciso di tornare. «Per dare una speranza ai giovani» (E Costanza Spocci da Pikine (Senegal))

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«Quando sono tornato solo dal Belgio, è stato tutto molto complicato», racconta Matador. «In famiglia mi davano del pazzo. L’idea che avessi avuto la possibilità di restare in Europa e fossi tornato in Senegal faceva senz’altro di me un idiota». Una scelta senza senso quella di Matador, in un Paese in cui fino a poco tempo fa perfino le missioni delle delegazioni governative tornavano dall’Europa con gli aerei mezzi vuoti. «Ma io avevo un progetto in testa qui. E sono cresciuto con la cultura hip hop, che t’insegna a rendere possibile quello che la gente definisce impossibile. Era una sfida. Loro hanno scelto di restare in Europa, io di tornare».

Loro sono Mokhtar e Gaye, i suoi amici d’infanzia e fratelli di musica. Lui è Babacar, anche se chi segue la scena del Galsen Hip Hop - il rap di scuola senegalese - lo conosce con il nome d’arte di Matador, “rapper, slammer, fondatore del gruppo Rap Wa Bmg 44”, acronimo che rimanda alle iniziali dei tre amici. Da tredici anni Matador è anche presidente di Africulturban, l’impossibile progetto sulle culture urbane che “l’idiota” ha realizzato a Pikine, la più grande e temuta periferia di Dakar, costruita nel 1952 per riallocare autoritariamente le famiglie cacciate dalla capitale, e diventata col tempo la seconda città del Paese.

Babacar è cresciuto a un tiro di schioppo da qui, a Thiaroye, banlieue affacciata sul mare da dove da anni partono le piroghe che puntano verso la Spagna. «A dieci anni ho iniziato con la breakdance, poi mi sono imbattuto nell’hip hop. E ho iniziato a rappare». Rap duro, militante. «Raccontavamo la miseria della banlieue e anche il disprezzo che ci accompagna. Siccome eravamo di Thiaroye tutti ci consideravano dei delinquenti. Volevamo strapparci quell’etichetta di dosso ed essere rispettati».

Quando si muovevano, racconta Matador, tutto il quartiere li seguiva, ma per oltre dieci anni nessun produttore ha osato avvicinarsi. Erano troppo arrabbiati e periferici. Nel 1998 finalmente i Wa Bmg 44 incidono il primo disco, Def Ci Yaw, un duro attacco al potere senegalese. Poco dopo l’incontro con il rapper e producer belga Smimooz li porta a Bruxelles per una residenza artistica a Lezarts urbains, «laboratorio sulle culture urbane che nascono nei milieux popolari». «Lì ho capito cosa mancava in Senegal. E mi si è ficcata questa idea in testa di aprire anche da noi un centro dove i ragazzi potessero imparare a fare video, fotografia, luci, rap e farlo diventare un mestiere». Quando è tornato a casa, però, gli amici non l’hanno seguito.
Matador è andato avanti da solo con il suo progetto. Presto ha trovato le persone giuste che gli hanno dato uno spazio per realizzarlo qui - nel complesso culturale di Pikine dedicato alla memoria del presidente-poeta Leopold Sedar Senghor - e altri complici (rapper, cineasti, fotografi, graffitari) con i quali il musicista ha iniziato ad accogliere i giovani e a formarli. Poco a poco sono arrivati anche i finanziatori, che hanno permesso di moltiplicare gli atelier e i corsi.

Africulturban dai giovani non prende neanche un franco africano. A loro Matador chiede solo di essere seri, puntuali, studiosi e di rispettare i corsi. «Se non lo fai sei fuori», spiega. Funziona. Ora a Pikine molti seguono le sue tracce. Alla fine del percorso di formazione, i ragazzi hanno la possibilità di fare degli stage all’estero, anche in Europa. Non ce n’è uno solo che si sia poi fermato lì. «Sono andati e sono tornati tutti, e ora hanno lavori che gli danno da vivere con ciò che hanno imparato qui», dice con orgoglio Matador. E magari di viaggiare e trovare lavoro anche all’estero.

Buona parte delle migliaia di studenti che passano da Africulturban arriva dalle cité-dormitori che si susseguono a est di Dakar, oltre Pikine. Alcuni sono passati da una cella del carcere minorile Fort B alla Youth Urban Media Academy (Yuma) - un progetto di reinserimento centrato sui mestieri del settore audiovisivo - diventando poi cameraman, tecnici del suono o montatori, come Pape Ndiaye e Am Kana, che oggi smanettano al computer per dare gli ultimi ritocchi al video di un concerto rap.

«I ragazzi delle banlieue che passano dalla galera sono rifiutati dalla famiglia e dalla comunità», spiega Matador. «Noi diamo loro una seconda chance e l’opportunità di avere una formazione, soprattutto nelle nuove tecnologie, che spesso è introvabile in Senegal. Non è un’opzione di serie B. Puntiamo all’eccellenza, a una formazione da élite, in un contesto povero». Sarà per questo che ora a studiare con Matador vengono da lontano, a volte anche dall’estero. Il viaggio più lungo nella testa dei senegalesi, però, è quello che porta alla vituperata Pikine dal cuore di Dakar. «Ogni mattina faccio un’ora di strada, ma ne vale la pena, anche se la gente mi prende per matta», confessa Ndèye Bassine Thiandonne. «Basta pronunciare il nome Pikine per seminare il panico. Attenta, dicono, ti aggrediranno. Ma io qui ho incontrato solo belle persone».
A Pikine il piccolo mondo di Africulturban si è trovato bene. Nel fine settimana il rapper emergente AbdelG presenterà nell’ampio cortile del complesso Senghor il suo nuovo disco Waxtu. «Facciamo molti concerti e altri eventi, magari a qualcuno diamo fastidio», dice Matador. Ma quando per un po’ rimaniamo in silenzio ce li chiedono, perché qui in periferia non si fa nulla».

Il rap di AbdelG arriverà a tutta Pikine passando dalle frequenze di Radio Oxyjeunes, l’emittente comunitaria che nel complesso culturale Senghor occupa le stanze accanto a quelle di Africulturban. «Abbiamo aperto nel 1999 con l’obiettivo di far sentire la voce dei senza voce», spiega il direttore Famara Seydi. Le loro priorità sono scontate, il direttore le snocciola rapidamente: insicurezza, povertà, mancanza d’istruzione. Un circolo difficile da spezzare. «Qui il livello di vita è molto basso e quando non hai i mezzi per dare a tuo figlio neanche la colazione, è inevitabile che dopo pochi anni lasci la scuola. E in strada si fa presto a diventare un bandito». La piccola radio comunitaria ha lavorato bene. In questi vent’anni ha fatto incetta di premi fino a diventare un modello per tutta l’Africa, anche se fatica a restare in piedi.

Nel palinsesto di Radio Oxyjeunes che dalle sei del mattino fino a notte inoltrata trasmette informazioni, sport e musica, le voci dei senza voce si sentono eccome. Parlano le sette lingue di Pikine, gli idiomi di coloro che sono arrivati a Dakar pensando di fare fortuna. Molti si sono arenati qui, altri hanno tentato di partire, puntando alla sponda nord del Mediterraneo.

«Quasi quindici anni fa c’è arrivata voce di questi giovani che prendevano il mare e molti morivano», racconta Seydi. «Nessuno osava parlarne però, noi siamo stati i primi. I ragazzi partivano dai dintorni di Pikine. Andavi in un quartiere e trovavi sempre una decina di famiglie o più che avevano perso i loro figli. Così abbiamo aperto i nostri microfoni, raccogliendo le testimonianze di chi era tornato indietro e voleva raccontarlo. Cosa raccontavano? Che prendere il mare è rischioso, che a largo ci sono le onde alte, il vento forte e non sai chi sopravvive e chi no».

Gli esperti dell’International Organization for Migration (Iom) avvertono che oltre alla famigerata via del deserto, che conduce verso i lager libici, si è riaperta anche la via del mare, che punta verso Gibilterra. Gli aspiranti migranti partono da nord, nei pressi di Saint Louis, dalla Casamance - il trascurato meridione del Senegal, teatro di una lunga guerra di secessione - e anche dai dintorni di Pikine. Le imbarcazioni sono un po’ più robuste di quelle che dal 2006 al 2010 affondavano a ripetizione nella “crisi delle piroghe”, ma l’esito del viaggio verso un’Europa sempre più blindata è altrettanto incerto. «Sì, una nuova ondata c’è», conferma Famara Seydi, «è già iniziata alcuni mesi fa. I ragazzi stanno rimettendo in acqua le piroghe».

Nell’anno peggiore della crisi delle piroghe, anche il giovane cineasta Elhadji Demba Dia ha visto partire i suoi due migliori amici. Nel 2005 l’hibernage - la stagione delle piogge - aveva seminato morte e distruzione a Dakar e dintorni. Guinaw Rail, il suo distretto, era devastato. «Le nostre case erano tutte sotto acqua, le famiglie disperse. Così Hadim, il mio più caro amico d’infanzia, ha deciso di prendere il mare per provare a ricostruire la casa dei genitori. I miei amici erano meccanici e garagisti, non conoscevano il mare, ma le mamme stavano nelle tende ed era intollerabile. Lo Stato non ha fatto nulla in quell’emergenza, li ha solo sfollati». Così l’anno dopo molti sono partiti e il quartiere si è spopolato. È andata male. «Ora riposano nel cimitero blu dell’Atlantico», racconta Elhadji. Lui è rimasto. «Anch’io a un certo punto volevo partire, ma ho trovato cose da fare: le magliette, il rap, i video. Poi ho incontrato persone che mi hanno formato e libri che mi hanno forgiato. E dato che avevo sempre in mano la telecamera, ho sentito il dovere di raccontare la storia dei miei amici».

Per farlo, Elhadji Demba Dia nel film “Weet” ha documentato l’attesa delle madri, che non è ancora finita. «Lo capisco da come parlano. Aspettano ancora i loro figli e si rifiutano di mettersi a lutto. Si aggrappano a questa speranza e sprecano soldi dai marabout, che dicono: fai sacrifici e torneranno». «È da qualche parte nel mondo», spiega una madre che ha già perso un figlio, «forse non ha telefono, ma lo sa che deve rientrare». «Io ho provato a cullarle con la telecamera affinché tutti i miei amici possano riposare a casa», dice Elhadji.

Non è partito con loro, ma Elhadji in Europa c’è arrivato, anni dopo, per presentare il suo film in un festival in Germania, a Colonia. «Interessante, ma non ho avuto la tentazione di restare», dice. «Ho le mie cose da fare, la mia piccola missione e cerco di realizzarla qui». Anche se qui sarà dura, prevede. «La pressione demografica nei prossimi dieci anni diventerà intollerabile. Dakar esploderà, Niamey esploderà. Sarà terribile». Per questo serve inventarsi delle vie alternative, e qualche soluzione Africulturban la offre, secondo lui. «Hanno trasformato delle vite, cosa c’è di più importante?».

Qualcosa si sta muovendo, conferma Matador, e non solo ad Africulturban. «Noi siamo stati i primi, ma ora altri seguono il nostro esempio.. Dobbiamo moltiplicare le possibilità di formazione, dare ai giovani gli strumenti che possono renderli indipendenti. E farlo con delle politiche che siano davvero pensate per loro. Non sono gli anziani che prendono le piroghe».

Sono anni che Matador incalza la politica con i suoi testi e come presidente di Africulturban. Il rapper non si aspetta che lo Stato elargisca posti di lavoro: «Dobbiamo avere noi dei progetti da proporre e ce li abbiamo. Ma le autorità devono creare le condizioni». E farlo il prima possibile. «Abbiamo perso già tanti giovani in mare che potrebbero essere qui a costruire qualcosa di diverso. Perché il Paese non sarà costruito da europei e americani. Saranno i giovani senegalesi e africani a costruire il Senegal e l’Africa. Ma se non diamo loro la possibilità di fare qualcosa saranno costretti a partire. Non tutti credono ancora che l’Europa sia un Eldorado. Ma non vogliono più restare qui, questa è l’unica cosa che sanno. Perché? Ecco, quando avremo davvero risposto a questa domanda avremo risolto tutto, o quasi».