Sempre più spesso saggisti e romanzieri scendono in campo contro l’emergenza climatica. Dopo Amitav Ghosh e Jonathan Safran Foer, ora è l'autore delle Correzioni a dire la sua. Con un testo breve che non lascia dubbi: «Se non ridurremo subito drasticamente le emissioni di CO2, a perdere non saranno solo i nostri figli o nipoti: saremo tutti noi»

Jonathan Franzen

Apocalisse di Giovanni coi suoi Quattro Cavalieri incisi da Albrecht Dürer nella celebre xilografia, ultimo libro del Nuovo Testamento, riverbera oggi la sua eco nell’apocalisse di Jonathan Franzen, autore anni fa del mirabile (tra gli altri) “Le correzioni” e oggi di “E se smettessimo di fingere?”, appena edito per i tipi di Einaudi nella traduzione di Silvia Pareschi con un sottotitolo non troppo ottimista: “Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica”.

Si tratta di un testo breve, appena 17 pagine, uscito lo scorso anno sul New Yorker, presentato assieme a un’intervista rilasciata al giornalista Wieland Freund del magazine tedesco Die Literarische Welt, in cui Franzen si prende il gusto di rispondere anche alle non poche critiche ricevute in patria al momento della pubblicazione dell’articolo originario di questo pamphlet, andato di traverso ai “numerosi gruppi di interesse ai quali giova fingere che la catastrofe si possa ancora evitare”. «Fra questi gruppi d’interesse», scrive Franzen, «ci sono il Partito democratico e l’establishment climatico degli Stati Uniti. Quasi ogni giorno, sul New York Times, la voce dell’America progressista, qualche politico o attivista di sinistra lancia un nuovo appello a prendere sul serio il cambiamento climatico e a salvare il pianeta».

Arrivati a questo punto, si sarebbe quasi tentati di pensare che Franzen sia passato dalla parte di Trump indossando i panni del negazionista. Non fosse che il Nostro, sull’appello a salvare il mondo, continua così: «A dire il vero, il momento di prenderlo sul serio era trent’anni fa. Ormai i buoi sono scappati!». Già: perché Franzen non è certo un reazionario repubblicano e tantomeno un negazionista. Semmai, prende atto di quella che ai suoi occhi altro non è che la realtà.

E si spinge fino a subodorare la volontà di strumentalizzare la questione da parte di entrambi gli schieramenti della politica Usa: «Poiché il Partito repubblicano finge che non esista alcun problema climatico, i democratici devono continuare a fingere che possiamo risolverlo, altrimenti la controversia diventa puramente accademica. Il mio delitto contro l’ortodossia progressista è stato non allinearmi a questa finzione». Sul fatto che i buoi siano scappati o stiano scappando anche sotto forma di ghiacciai che si sciolgono – prima in Artide e ora in Antartide – certe immagini circolate di recente hanno un grande potere di convincimento, nonostante il distacco del blocco di ghiaccio D28, più grande dell’isola di Zanzibar, sia stato definito come “normale” da esponenti della comunità scientifica.

Quanto ai decenni di ritardo, il libro premonitore “Primavera silenziosa” di Rachel Carson – vero e proprio manifesto antesignano dell’ambientalismo – è addirittura del 1962, mentre il famoso e inascoltato rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo risale al 1972. E se nel frattempo in Europa il clima sembra essere diventato un tema predominante, ciò non significa che si agisca di conseguenza: «I Paesi europei continuano a devastare il mondo naturale tramite politiche agricole che rendono sterile il suolo, la distruzione delle riserve ittiche, la cattiva gestione forestale, l’insostenibile diffusione della caccia legale e illegale, e sì, anche tramite parchi eolici, direttive sugli idrocarburi e altri programmi energetici virtuosi».

Le critiche piovute all’indomani della pubblicazione dell’articolo originale sul New Yorker da parte di ricercatori come Zeke Hausfather – autore di numerosi modelli climatici sul riscaldamento globale – e di testate come Business Insider o Popular Science, accusano il narratore americano di non avere un approccio scientifico al problema e innanzitutto di avere sposato una visione binaria e nichilista, colpevole di indurre all’inazione. Scrive in effetti Franzen, che da bird-watcher ha iniziato a interessarsi di ecologia fin dal 1992: «Se avete meno di sessant’anni, avrete buone probabilità di assistere alla totale destabilizzazione della vita sulla terra - carestie su vasta scala, incendi apocalittici, implosione di intere economie, immani inondazioni, centinaia di milioni di rifugiati in fuga da regione rese inabitabili dal caldo estremo o dalla siccità permanente. Se avete meno di trent’anni, vi assisterete quasi sicuramente».

Lungi dall’essere un profeta di sventure di quelli in cui ci s’imbatte a Times Square con tanto di cartello riportante la data della fine del mondo, Franzen mostra di possedere una grande lucidità: «L’apocalisse climatica è caotica. Prenderà la forma di crisi sempre più gravi che peggioreranno in modo disordinato, finché la civiltà non comincerà a disgregarsi». E subito viene in mente “Collasso” di Jared Diamond, uscito nel 2004. Perfino Scientific American ha dimostrato che i climatologi, anziché ingigantire la minaccia del cambiamento climatico, ne hanno sottovalutato la gravità e la velocità, sottolinea Franzen.

Certo da parte sua ritiene che il famoso limite di 2° stabilito come obiettivo dall’Accordo di Parigi sul clima sia totalmente irrealistico: «Per avere anche solo una possibilità di rispettare quell’obiettivo, ogni nazione del mondo dovrebbe trasformare interamente le proprie infrastrutture e la propria economia nei prossimi dieci anni». Il gioco è finito, ammonisce l’apocalisse di Jonathan. Il petro-consumismo ha vinto e l’uomo sta provocando la sesta estinzione di massa. Se non ridurremo subito drasticamente le emissioni di CO2, a perdere non saranno solo i nostri figli o nipoti: saremo tutti noi.