Nell’anno della pandemia li abbiamo cercati negli ospedali e nelle scuole. E li abbiamo trovati. Secondo una lezione attualissima che arriva dal mondo classico: si combatte e resiste ammettendo limiti e fragilità. Abbracciando il nostro destino di esseri umani. Senza superpoteri

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Bertolt Brecht – bisogna ammetterlo – di eroi capiva poco. Quando, in “Vita di Galileo”, incise in poche parole quella denuncia destinata a diventare aforisma (“Beato il popolo che non ha bisogno di eroi”) commise un errore perdonabile solo vista la sua buona fede. E visto anche il fraintendimento secolare da cui era investito. Nella figura dell’eroe, evidentemente, Brecht identificava un essere aldilà dell’umano, un esemplare di perfezione, forza, vigore, incapacità di sbagliare, impossibilità di essere sconfitto e fallire, un uomo privo di paura, duro come il ferro e capace di risolvere ciò che gli uomini comuni non sanno neppure affrontare. Intendeva quello che noi chiameremmo un supereroe insomma. Un genere che di umano ha davvero poco. E che proprio per questo è definito dal prefisso “super”, perché oltrepassa, supera, travalica i caratteri semplicemente umani, e diventa altro.

Il supereroe non è in nessun modo l’eroe, e anzi può aiutare a definire ciò che significa essere eroi solo per opposizione. Perché se il superamento di cui è capace il supereroe è superamento dell’umanità attraverso una serie di poteri che agli uomini non sono dati, basta riflettere per sottrazione e concludere che la dimensione dell’eroismo riguarda invece esclusivamente l’umanità. Non tutta l’umanità, certo. Bensì quella parte che fa di tutto per realizzarsi. Eroe infatti significa “essere umano pienamente realizzato”. Nient’altro che questo. E di esseri umani pienamente realizzati ha bisogno qualsiasi popolo, in qualsiasi tempo, in qualsiasi momento della sua storia.

Ma restiamo ai primi paradigmi di eroismo per trovare un esempio che possa chiarirci le idee e soprattutto riesca a funzionare come modello in tempi difficili come i nostri, tempi duri e complessi sotto molti punti di vista. Come sa chiunque, quei paradigmi apparvero nelle opere che aprono la storia della letteratura occidentale: i poemi omerici. Chi li abbia letti per intero, evitando versioni semplificate o trasposizioni cinematografiche, sa bene che Iliade e Odissea ci raccontano eroi che sono sempre sconfitti.

Nessun eroe è un vincente, infatti. Non certo Achille, il più forte degli Achei, ucciso dalla freccia scoccata dal più vile dei guerrieri. Né Ettore, il più forte dei Troiani, ucciso da Achille e umiliato di fronte alle mura della sua città. Non Agamennone, il capo della spedizione, ucciso dall’amante della moglie fedifraga non appena rimette piede a Micene. Né tantomeno Odisseo che dopo vent’anni di lontananza da Itaca si ritrova in un’isola che non riconosce neppure e solo a fatica riprende il trono di una casa dove verrà a conoscenza di un’unica verità: a casa non si torna mai.

Gli eroi dei poemi sono tutti vinti, estremamente fallibili, per nulla immortali e anzi costantemente angosciati dalla brevità della vita. Perché il loro eroismo è altrove rispetto a quello a cui vorrebbe credere un’epoca dominata dalla paura del fallimento. Il loro eroismo, lontanissimo da quello vincente dei supereroi, sta nel fare i conti con la mortalità che tutti ci accomuna e dunque con la nostra umanità, nel tentare di sondarla ogni giorno fino alle estreme conseguenze.

Gli eroi omerici sono uomini fragili e questa fragilità la rivendicano e non ne hanno vergogna perché fragile è l’essere umano, fragile e propenso a sbagliare e a soffrire. Achille, Agamennone, Odisseo, Ettore, Aiace, Patroclo, Diomede, nessuno di coloro che possono essere chiamati eroi si tira indietro. Nessuno evita di rivelare i propri limiti nell’esaltazione dell’emotività, e principalmente nella manifestazione più estrema dei sentimenti, ossia nel riso e soprattutto nel pianto.

Non c’è eroe che non pianga, in Iliade e Odissea. Spesso per pagine intere assistiamo a grida, singulti, lamenti senza che nessuno nasconda il viso o cerchi di fingere durezza. Perché appartiene all’essenza dell’essere umano l’emotività che tracima nel pianto. Gli eroi, d’altronde, hanno spesso paura e non fingono di non averne, né mai scansano timori e terrori, e proprio così li affrontano e cercano di superarli. La paura si sconfigge vivendola – ci dicono. Essa appartiene alla dimensione umana e non si può fare a meno di immergervisi. Solo chi ha paura dell’immersione nella paura, rischia che sia essa infine a prevalere.

Sembrano parole vane, queste. Ma gli eroi non si limitano affatto a parlare. Essi si muovono, agiscono, e semmai ci si mostrano come fossero un esempio. Andiamo a guardarli nella loro intimità, in un tempo, come il nostro, in cui l’intimità è ciò che possiamo dilatare. E prendiamo l’eroe più famoso e più frainteso, quello che una scrittrice forse poco esperta di Iliade ha saputo rinominare “la Bestia”.

Achille è in effetti il più fragile degli eroi e non solo per via della caviglia che sembra di ferro e in realtà è di cristallo. Ma siamo abituati a pensarlo duro e invincibile. Siamo abituati a credere che questo ragazzo, posto di fronte all’alternativa fra una breve vita gloriosa e una lunga vita di anonimità, scelga la breve vita e proprio questo sia il segno del suo eroismo.

Ora, lasciate stare quel che si racconta a sproposito e leggete Omero. C’è un unico luogo in cui questa alternativa compare nell’Iliade e ascoltate. In quel momento (nel IX libro), Achille sceglie eccome fra le due possibilità e sceglie la vita, il ritorno a casa, i cavalli che possiede a Ftia, l’abbraccio del padre. »Niente per me vale come il soffio della vita». mormora a chi gli chiede di tornare alla battaglia. Perché tutto si può comprare in questo mondo, ma la vita, una volta che la perdi, è persa per sempre.

E qual è la vita, per Achille, in quel momento? Lasciate risuonare i versi omerici e osservate: la vita è la cetra su cui l’eroe sta intonando un canto, è il vaso da cui beve vino che ha versato per lui l’amico più amato Patroclo, è la vicinanza e la comprensione di questo amico, il calore della tenda, il sogno della casa. Una sorpresa per il lettore di oggi o per chi nell’antichità ascoltava gli aedi cantare il poema?

Torniamo all’inizio dell’Iliade. Qui Achille mostra subito la sua natura. È schietto, spontaneo, impulsivo. È l’unico che osa opporsi al capo della spedizione incapace di prendere iniziative di fronte all’epidemia che sta falciando il campo acheo. Gli risponde a muso duro. Lo insulta perché sta superando la misura umana e vuole dominare senza ascoltare. Poi, mentre i compagni tacciono, ubbidisce alle regole della comunità, getta in terra lo scettro assegnato a chi parla in assemblea, si avvia verso il mare spumoso come il vino, scoppia a piangere e si dispera e chiama a consolarlo la madre. Questo è Achille. Un ragazzo che piange fra le braccia della madre.

Cosa ci insegna quindi il giovane che quando il suo amato Patroclo muore, torna in battaglia, sbaraglia furibondo il campo nemico, uccide Ettore, ne trascina il corpo sulla terra riarsa per martoriarlo davanti ai genitori, poi dorme, sogna l’amico morto, e infine, trasformato dal dolore, riceve Priamo, padre di Ettore, nella sua tenda, e con lui piange, in un abbraccio che nessuna opera letteraria è mai riuscita a eguagliare? Non ci insegna forse che non esistono nemici, in questa vita, né vincitori né vinti, ma solo padri e figli che soffrono lo stesso dolore, ossia la sconcertante ferita della mortalità? Non ci insegna proprio questo Achille, come del resto tutti gli altri eroi omerici?

Morire si deve e sarebbe auspicabile morire il più tardi possibile, ma poiché comunque quel momento arriverà, ciò che possiamo fare è soltanto una cosa: usare bene il nostro tempo, usare nel modo migliore la più grande ricchezza che abbiamo a disposizione, quella che unica è davvero esauribile. Possiamo solo impiegare il nostro tempo e vivere, quindi sbagliare, perché è impossibile non sbagliare, e correggere gli errori, e non evitare nessuna sfida e insistere, giorno per giorno, nel tentativo davvero epico di realizzare completamente la nostra umanità.

Tutti possiamo essere eroi. Non soltanto chi è impegnato in vicende che sono sulla ribalta. Ma chiunque nella propria casa, come Achille nella sua tenda, cerca di vivere l’intimità domestica nel modo migliore eppoi, quando è chiamato dalla dimensione comunitaria a fare il suo compito, esce dalla tenda e affronta la propria paura.

Realizzare la propria umanità significa infine capire che per essere individui si deve riconoscere l’importanza di essere se stessi sia in privato che nella comunità di cui si è parte. Perché l’espressione di noi stessi passa attraverso la nostra espressione nel gruppo in cui viviamo. E che il meglio per noi s’identifica nel meglio della comunità. Paroloni? Oggi per cominciare a essere eroi basterebbe usare come si deve una mascherina. Perché la salvaguardia della propria salute passa per la salvaguardia della salute di tutti.

Essere eroi è cosa più semplice di quanto si è portati a pensare. E tuttavia gli esseri umani sono costantemente tentati dal dèmone dell’individualismo autolesionista e finiscono spesso per pensare che eroi siano altri, siano i vincenti, i furbi, i presunti immortali, quegli esemplari di un’umanità divertita e scanzonata, uomini che non piangono e non soffrono, che fingono di non avere paura e ballano sul loro presente. Anche questo tipo umano però fu cantato da Omero.

Si tratta dell’unico uomo che dice di non aver paura eppure fugge, perde tempo ogni giorno di fronte allo specchio e disprezza la comunità a cui ha portato mille dolori, non difende mai la casa né la sua anima, si lascia portare dal desiderio delle vanità e non si fa mai vedere in lacrime e forse anzi non sa neppure cosa significa piangere, soffrire, interrogarsi e cercare quotidianamente di rimettersi in gioco. Non è eroe, questo ragazzo, disprezzato dal suo stesso padre che lo definisce vile e bugiardo «bravo solo a eseguire passi di danza». Esempio classico di un tipo umano che incontriamo ogni giorno, causa prima della guerra di Troia, bello solo all’apparenza, il suo nome era Paride, fu chiamato anche Alessandro e oggi di nomi ne ha milioni.