Impauriti, incerti. Siamo tutti spaesati, in cerca della giusta distanza, per capire la nuova realtà in cui ci troviamo. E che dobbiamo a guardare con "Occhiacci di legno". Parola di un grande storico

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Cosa significa osservare la realtà collocandosi alla giusta distanza? Compito arduo in tempi normali, assumere una giusta distanza rappresenta una sfida tanto maggiore ora, in un momento in cui la realtà sembra assediarci, con la minaccia invisibile di un virus sconosciuto, con la contrazione delle nostre libertà personali, con la voracità di certa politica che approfitta del dramma per guadagnare consenso, con la solitudine, l’incertezza, la paura.

“Occhiacci di legno” di Carlo Ginzburg era tornato in libreria in una versione ampliata per l’editore Quodlibet poco prima dell’inizio dell’emergenza. Il tempismo è sorprendente, considerata la ricchezza dei temi con cui oggi Ginzburg torna a suggerirci la giusta posizione da cui affacciarci alla realtà.

Gli “occhiacci” del titolo sono quelli del Pinocchio di Collodi: «Questo libro - ci dice Ginzburg durante la nostra conversazione - mi ha accompagnato dall’infanzia fino ad oggi, e da esso, come tutti quelli che lo hanno letto, ho imparato moltissimo. Qualcosa di simile rivelò in una delle ultime interviste Italo Calvino».

«Occhiacci di legno, perché mi guardate?» sono le parole che, con lo stile secco di Collodi, Geppetto rivolge al suo burattino appena intagliato. «Di colpo il rapporto tra i due si è rovesciato: il burattino si volge aggressivamente verso chi l’ha costruito», nota Ginzburg. Geppetto è sbalordito: la sua creazione ha preso vita, proprio come tante strutture e pregiudizi che costruiamo per guardare la realtà divengono essi stessi reali e autonomi rispetto al nostro utilizzo. Ma la sorpresa può aprire la distanza, di cui Ginzburg indaga tutte le ambigue implicazioni intellettuali, politiche, emotive.

Nella prefazione, si legge che tutto il mondo è paese. Ma ciò è vero «non perché tutto è uguale, ma perché tutti siamo spaesati di fronte a qualcosa o a qualcuno», precisa lo storico. Non ci sentiamo oggi tutti spaesati, impauriti, incerti? Ma lo spaesamento diviene un’occasione solo se praticato con consapevolezza e rigore: questo motivo è costante in tutto il libro, in cui, afferma Ginzburg, percorrendo temi diversissimi si vuole «spaesare il lettore, suggerendo che guardare la realtà come qualcosa di incomprensibile può aprire la strada a una conoscenza più profonda».

Si tratta di un appello ad aver coscienza delle parole con cui interpretiamo il mondo, conservando la capacità di prendere le distanze nel momento in cui esse ci sfuggono di mano, assumendo una loro autonomia. L’immagine di una nostra produzione che prende vita e volge su di noi i suoi “occhiacci” ci invita a collocarci alla giusta distanza per aprire un rapporto più vero con la realtà, al di là delle strutture - talvolta necessarie, altre volte truffaldine, ma mai inerti - che costruiamo per imbrigliarne l’imprevedibilità.

“Fingunt, simul creduntque” sentenziava Tacito: gli uomini finiscono per credere reale ciò che hanno inventato.
«Giustissimo, ma come tradurre fingunt? “Hanno immaginato” o “hanno costruito”? Nel verbo latino “fingo” sono presenti entrambi i significati, materiale e immateriale (“fictor” è il vasaio). Ma simul, “al tempo stesso”, fa di queste parole di Tacito uno dei lasciti più importanti, e più inattesi, della letteratura latina. Geppetto mi ha portato a Tacito, e viceversa: nel 2008, dieci anni dopo “Occhiacci di legno”, ho scritto un saggio - “Paura reverenza terrore: rileggere Hobbes oggi” - poi ristampato nel 2015 in un libro pubblicato da Adelphi con lo stesso titolo. Nel saggio su Hobbes mi sono servito, seguendo un’indicazione di Vico, di quella frase di Tacito per analizzare il frontespizio del Leviatano: l’immagine famosa del gigante, il Leviatano, composto da tanti omettini, che guardano con reverenza, inconsapevoli, la propria creazione, cioè lo Stato. Un’immagine che condensa il significato dell’opera di Hobbes».

«Gli uomini si fabbricano gli dei e venerano le loro creazioni», suggerisce il Vangelo gnostico di Filippo. Pensiamo a come ci relazioniamo oggi al discorso medico o ai decreti che si susseguono: che cosa significa renderci consapevoli della “finzione” di convenzioni, categorie, cerimonie, pratiche?
«Sull’opportunità di usare il termine “finzione”, con le sue sfumature riduttive, per descrivere quello che sta succedendo, dichiaro subito il mio disaccordo. Ci troviamo di fronte a una tragedia: lasciamo che sia Bolsonaro a liquidare il Coronavirus come “un semplice raffreddore”. Di fronte alla novità del virus gli epidemiologi brancolano nel buio, formulando, com’è giusto, delle ipotesi, che andranno discusse da chi ha la competenza per farlo. Quanto alle implicazioni politiche di ciò che sta succedendo, esse sono enormi e imprevedibili. Pochi giorni fa la rivista on-line “Le grand Continent” ha ripubblicato la traduzione francese del mio saggio su Hobbes di cui facevo menzione prima, riproponendolo oggi, alla luce del Coronavirus e dei suoi corollari. Una riproposizione tutt’altro che arbitraria. La mia ricerca era nata dalle pagine di Tucidide sulla peste ad Atene, tradotte da Hobbes, con una piccola ma significativa variazione. In essa proponevo di vedere il germe dell’opera matura di Hobbes: vari elementi fanno pensare che la dissoluzione dei legami sociali prodotta dalla peste, e descritta da Tucidide, abbia contribuito all’idea della guerra primordiale di tutti contro tutti, avanzata nel Leviatano come legittimazione dell’istituzione dello Stato. Questo tema riemerge in forma diversa nella conclusione del mio saggio, in cui formulo un’ipotesi, augurandomi che non si possa avverare mai: di fronte a un insostenibile inquinamento ambientale, la specie umana potrebbe essere costretta ad assoggettarsi a un potere ancora più pervasivo e schiacciante di quello dello Stato-Leviatano, per soccorrere una natura guasta e vulnerata».

È il rischio che corriamo oggi?
«Forse oggi, con la diffusione del Covid-19, quell’ipotesi si sta avverando. Il caso della Cina è eloquente. Come mi ha fatto notare mio cugino Jean Levi, sinologo, la diffusione del Coronavirus in Cina dev’essere stata enormemente più vasta rispetto ai dati ufficiali: se così non fosse, l’avere preso misure decisamente dannose per l’economia sarebbe stato assurdo. Ma l’epidemia è stata arginata attraverso un controllo capillare, massiccio, leviatanesco sulla popolazione. E una sconfitta si è trasformata, attraverso un uso abilissimo della propaganda, in una vittoria: primo passo di una futura, ma forse non troppo lontana, egemonia mondiale».

Una figura a lei cara, l’avvocato del diavolo, ribatterebbe che prendere distanza dalle categorie che utilizziamo finirà per precipitarci nel relativismo.
«Per decenni mi sono battuto contro il neoscetticismo relativistico, contro l’idea che tra narrazione storica e narrazione di finzione non ci sia un confine rigoroso. Ricordo che molto tempo fa, a un convegno che si tenne a Yale, parlai di “truth without quotation marks”, verità senza virgolette: tutti scoppiarono a ridere, perché nell’accademia statunitense il gesto delle virgolette accompagnava regolarmente la parola verità. Oggi forse un po’ meno: la post-verità (post-truth) e le fake news potrebbero (dovrebbero) indurre alla cautela. Ma un atteggiamento critico nei confronti delle categorie che utilizziamo mi sembra indispensabile, se si vuole cercare una verità senza virgolette – ossia una verità umana, in quanto tale falsificabile».

È prezioso, contro il relativismo, il movimento di straniamento che propone nel libro, che implica sia mobilità critica sia una certa serietà.
«La mia riflessione sullo straniamento parte dalla definizione che ne propose il famoso critico russo Viktor Šklovskij: un espediente letterario volto a combattere l’automatismo delle percezioni e degli atteggiamenti. Come Šklovskij mostrò, attraverso esempi tratti soprattutto da Tolstoj, questa presa di distanza dalla realtà consente di attingere una verità più profonda. Ho cercato di ricostruire la preistoria di questo tipo di straniamento partendo da Marco Aurelio, l’imperatore filosofo che Tolstoj conosceva bene; e ne ho sottolineato le implicazioni politiche. Le reazioni - fittizie - degli indigeni brasiliani, di cui parlò Montaigne in una pagina famosa, mettono a nudo le diseguaglianze sociali della società francese; lo stesso fa il cavallo che, in un bellissimo racconto di Tolstoj, guarda la società umana. Ma ho cercato di ricostruire anche un altro tipo di straniamento, di natura estetica: quello proposto da Proust. Comune a queste declinazioni è il tentativo di guardare la realtà con occhi opachi, come senza capire ciò che accade, per capirlo meglio. Ricominciando, con uno sguardo obliquo, a guardare la realtà come se non avesse senso alcuno, come un indovinello. Come se la guardassimo per la prima volta, con curiosità e sorpresa».

Allontanarsi da pregiudizi e preconcetti per avvicinare la realtà: una giusta distanza permette di non aprire uno spazio colmato da falsità e demagogia.
«Sono perfettamente d’accordo. Come mi è capitato di dire più volte, le fake news vanno combattute con la filologia: l’arma usata da Lorenzo Valla per dimostrare, a metà del ’400, che la cosiddetta donazione di Costantino era un falso. La filologia implica distanza intellettuale. Certo, un’eccessiva distanza può portare a un’insensibilità morale: è il tema che tratto nel saggio “Uccidere un mandarino cinese”. Ma il rischio dell’insensibilità non si supera con l’empatia, di cui oggi si parla molto, come antidoto alla trasformazione della distanza fisica imposta dall’epidemia in distanza – e noncuranza – emotiva. Personalmente penso che l’empatia sia una nozione sviante, perché fa pensare che sia possibile superare la distanza – culturale, sociale, fisica – rimanendo su un piano puramente emotivo».

Questo strumento filologico in termini etici può tradursi nel considerare familiare ciò che è straniero, e straniero anche ciò che è vicino. C’è chi direbbe, allora, che davvero etica non è questa o quella esperienza, ma la stessa sospensione in questo spaesamento. Non sono già questa erranza e questo spaesamento la nostra verità profonda da attingere?
«“Erranza” e “spaesamento” sono metafore. La prima, diversamente dallo spaesamento, mi lascia freddo. In ogni caso lo spaesamento non è un fine (“non aver niente da fare”) ma un mezzo. Oggi, la condizione di isolamento in cui siamo costretti pare sospendere ogni senso: possiamo dire che questa è una verità etica? Si rischia di finire per accontentarsi di suggestioni che, pur interessanti, non bastano. Ci diciamo di rimanere in casa, ma restare in casa e poter continuare il proprio lavoro è, oggi, un privilegio, di cui sono ben consapevole. Molte persone - a cominciare dai malati in ospedale e da chi se ne prende cura - non stanno affatto in casa. Le metafore guerresche, oggi onnipresenti, rischiano di essere retoriche: ma certo i medici e gli infermieri lottano in prima linea, sacrificando il contatto coi propri cari, rischiando la salute e la vita, ben consapevoli di quello che fanno».