Una volta che stavo andando via, passai a salutarlo e lo trovai che guardava in tv la partita di Champions League e intanto ascoltava un mp3 di Lucio Battisti e poi voleva parlare di politica. Un’altra volta mi chiese di prendere un suo pezzo su Gianfranco Fini perché voleva farmelo leggere, ma nella stampante trovai mischiate due cartelle su non so quale anniversario di Easy Rider. Era a suo agio in mezzo a questa confusione di lingue che era la bella modernità, il suo tempo, che lo faceva dialogare con il portavoce del papa, subito trasformato in un’imitazione indimenticabile, il Navarro-Valls di Berselli, e poi rientrare nel suo ruolo di intellettuale pazientemente portato in società.
Era circondato dalla carta e dagli amici, ogni tanto lo vedevo, però, all’improvviso ritirarsi in qualche angolo di sé, da solo, come un ragazzo che cerca di capire i grandi. In effetti capiva tutto e di tutto scriveva, con entusiasmo adolescenziale: del fattore C. di Romano Prodi e della scomparsa del ceto medio, di Mike Bongiomo e del capitale sociale di Robert Putnam, degli imbecilli progressisti, di quelli che concludono le frasi con «e quant’altro», detestati, e della banalità, fateci la cortesia.
Era direttore della rivista «il Mulino», ma sull’«Espresso», dove era arrivato con Giulio Anselmi, si divertiva in una piccola rubrica firmata Eddi Bi a bocciare i fuori corso tipo Gasparri. Con pari grazia, Edmondo ha raccontato la società italiana, le sue facce eterne e i nuovi mostri. Con la freddezza che celava il calore, con la svagatezza che copriva le ore macinate nella lettura, la fatica, la comprensione delle cose e la compassione per le persone.
Era venuto su dalla provincia, «noi, i poveri», ed era quindi scettico sulle palingenesi sociali, «buonanotte ai suonatori, buonanotte ai sognatori». Non un pensatore, un filosofo, ma un artigiano della parola che macinava pezzi e idee a una velocità furibonda, su quei fogli che ti descrivono il mondo che fino a poco tempo fa chiamavamo giornali. Un venerato maestro di anti-retorica che non militava sotto nessuna bandiera, figuriamoci, anche la sinistra era per lui una questione sentimentale più che politica.

Ma quando è arrivato il suo momento, ha cambiato discorso, ha stupito tutti con il suo ultimo libro piccolo e denso, senza più dettagli e cinismo, in cui ha rivelato la sua tensione per l’economia giusta, il mondo giusto, il suono - almeno - di un sogno, «con un po’ di intelligenza e d’umanità davanti». Vi ho preso in giro, con la maschera del disincanto, sembrò voler dire a tutti, ma io qui intanto meditavo sulla scelta tra «essere poveri nella consapevolezza della propria condizione storica e antropologica» o esserlo «nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili».
La giustizia era il tema degli anni successivi a lui, di oggi e di domani. Lo aveva immaginato, da solo.
Un’altra realtà possibile. Ma lo diciamo piano. Non ne facciamo un manifesto. Perché, sennò, chissà Eddy.