La cultura. La politica. La professione: «Azzardo, intelligenza, cinismo». A dieci anni dalla scomparsa tornano i testi di Eddy Bi. E un'autobiografia inedita in cui spiega: «Noi veniamo dal popolo e ci piacciono le cose popolari»
Non ho mai deciso di diventare giornalista. A un certo punto della mia vita, ho deciso che avrei lavorato con la carta stampata, non importa che si trattasse di giornali o di libri.
Finito il servizio militare, mio padre mi portò da Guglielmo Zucconi, che era un giornalista modenese piuttosto noto e a quel tempo senatore indipendente della Dc locale. Zucconi fece tutto il possibile per scoraggiarmi e mi smammò via piuttosto alla svelta. Da vecchio democristiano, mio padre ci rimase piuttosto male. Più pragmatica, mia madre smise di votare lo Scudocrociato. lo decisi che avrei dedicato la mia vita a smentire le fosche previsioni di Zucconi. Vent'anni dopo lo incontrai a Milano, quando ero ormai uno dei principali editorialisti della «Stampa». Aspettavo quel momento da anni, per sbattergli in faccia il mio modesto successo. Ogni tanto infatti ci pensavo: se vedo Zucconi ... Lo incontrai nella sede del «Giorno». Stavo per dirgli: hai visto Zucconi che hai sbagliato tutto? Ma lui mi strinse la mano e mi disse: «Ma Berselli, che cosa ci fa con quei torinesi, venga con noi». E allora io sentii sbollire due decenni di risentimento, abbandonai in un istante una rivalsa covata per vent'anni, e lo abbracciai.
La mia gavetta si è svolta tutta in ambito editoriale. Ho cominciato a lavorare al Mulino di Bologna, nella sede di via Santo Stefano, a un passo dalle due Torri, nel1976. Ho fatto il correttore di bozze per un anno e mezzo. Ho perso qualche diottria, non troppe, e ho imparato tutto ciò che c'è da sapere sugli accenti e gli apostrofi, che si scrive chiacchiere e non chiacchere, scombicchierare e non scombiccherare. Ancora adesso, quando leggo un libro o un giornale, mi irrito quando vedo errori d'ortografia tipo «un pò», «qual' è», «due anni fà».
Poi ho fatto la mia onesta carriera arrivando fino allo staff della direzione editoriale e alla direzione della rivista «il Mulino».
La vicenda giornalistica è venuta piuttosto tardi, quando nel 1986 Pier Vittorio Marvasi divenne direttore della «Gazzetta di Modena» e mi chiese di collaborare. Scrivevo un editoriale ogni settimana, di solito la domenica, per 25mila lire nette.
Marvasi e io avemmo un certo successo in città. Il giornale divenne un punto di riferimento. Si suscitavano discussioni. Qualcuno cominciò a seguirmi. Si accorse di me «Il Resto del Carlino». Passai al giornale bolognese nell988. Mi offrirono 300mila lire ad articolo. Allora ero un buon giocatore di poker, e storsi la bocca. Ne portai a casa 500mila (lorde, mica male). Adesso non sarei più capace di giocare in quel modo.
Non c'è mai stato un primo giorno in redazione. Di solito, quando entro in luoghi dove la gente lavora, e ti guarda con visibile sospetto, sono molto intimidito. Ti osservano come portatore di probabili fastidi, e tu inutilmente sorridi e fai il cordiale. Si vede benissimo che le redazioni tirano un sospiro di sollievo quando te ne vai.
Il primo articolo che ho scritto fu una sorta di lettera aperta alla «Gazzetta di Modena», in cui sostenevo che la città era un mortorio, incapace di valorizzare gli spiriti liberi, priva di outsider intelligenti. Concludevo dicendo che Modena era davvero la città dei tortellini e dello zampone, cioè i simboli di «una cucina che macina tutto». Seguì un formidabile dibattito che durò per settimane, con grande soddisfazione di Marvasi. La penso ancora così. Modena è una città che tende al conformismo, agli atti codificati, all' omologazione. Produce molto e critica poco, e soltanto mugugnando. Vedi caso, i modenesi eccellenti sono tutti fuori, chi a Bologna, chi a Roma, chi a Milano, chi in politica, chi nei giornali.
Forse, fossi stato meno timido, se avessi avuto più iniziativa e coraggio, subito dopo la laurea sarei andato a fare l'abusivo al «Carlino»: mi sarei presentato, avrei chiesto di collaborare, e sarei diventato giornalista con decenni di anticipo. Ma ho lavorato in una delle più importanti case editrici italiane, e ho potuto godere del vantaggio impagabile di una formazione culturale permanente, dato che ogni giornata si rivelava una sfida intellettuale, circondato com'ero da intellettuali importanti. Ho imparato quasi tutto lì. Sono ancora grato al mio insopportabile maestro, Giovanni Evangelisti, che è morto un anno fa, e al quale ho cominciato a voler bene quando sono uscito dalla casa editrice, nel 2000.
Fare il giornalista oggi è una professione ambita per motivi ormai misteriosi. Gli stipendi, anzi i compensi, sono bassi, per i principianti, se non addirittura ridicoli, e le possibilità di accesso sono sempre minori. I giornali sono tornati in crisi e ormai l'informazione è una galassia priva di confini: il web, le televisioni, il cartaceo, i giornali «free». Il mestiere si dequalifica, gli inviati sono praticamente scomparsi. TI giornalista sta al desk e fa «l'aggregatore» di notizie, mette titoli, sommari e didascalie. Però evidentemente a qualcuno piace ancora, anche se l'ambizione di fare il giornalista deriva di solito dall'amore per la scrittura. Ma ormai per la maggioranza di chi fa questo mestiere la scrittura è un fattore in secondo piano.
Ho mai fatto markette? Tutto quello che faccio è una marketta, scherziamo? Il giornalismo non è affatto un mestiere nobile. È azzardo, intelligenza, cinismo, amore per i particolari, spregiudicatezza, raccontare in due parole le centinaia di pagine che non si sono capite. Quelli invece che arricciano il naso e fanno gli snob sono gente fortunata, che può consentirsi gli atteggiamenti di superiorità. Noi veniamo dal popolo, e ci piacciono quindi le cose popolari.
Non ho una giornata di lavoro standard. Se non devo scrivere, leggo. Tutte le settimane vado un paio di giorni a Roma. Ho un ufficio all' «Espresso», vedo colleghi, i miei direttori, gli amidi discuto, scrivo, vado in tv, e faccio cene. Roma è una fatica. Gli spostamenti portano via ore. Si produce meno, in questa girandola di incontri, facce, e magari salotti e salottini.
Leggo ogni giorno tutti i quotidiani nazionali, praticamente. Leggo: si fa per dire. Mi accorgo spesso che coloro che leggono bene un solo giornale sono più precisi e circostanziati di me che ne scorro quindici.
A casa ho uno studio a piano terra, nel palazzo dove abito. Perfettamente attrezzato. Quando mi stanco di scrivere mi stacco dal computer e faccio qualche esercizio al pianoforte, l'ultima delle mie frustranti passioni. Poi, quando rimango deluso dai risultati per l'ennesima volta (di solito dopo circa cinque minuti), riprendo a scrivere.
Tutti ci insegnano qualcosa. Ho imparato molto dalle critiche e dalle insoddisfazioni altrui. La cosa fastidiosa è che gli altri hanno quasi sempre ragione. Invitano a semplificare, ad andare all'osso. Mi piaceva Gianni Brera, che ha inventato una lingua. Le sue cronache, ripubblicate di recente da Aragno, sono perfette ancora oggi. Il suo libro “Storia critica del calcio italiano”, probabilmente scritto in un mese durante le ferie, offre una prosa perfetta. Poi ammiro il Giorgio Bocca cronista, quello che ha descritto la modernizzazione italiana negli anni Sessanta, e tanti altri. Credo che il segreto per non invecchiare consista nell'invidiare la bravura altrui, e cercare di emularla. Per dire, io invidio il modo in cui Ezio Mauro scrive appellandosi ai principi di una coscienza «repubblicana», ma invidio anche la forza ottocentesca delle polemiche dell'ex marxista Giuliano Ferrara, e addirittura, lo confesso a malincuore, il pensiero chiaro e distinto di Sergio Romano, di cui non condivido quasi nulla ma leggo quasi tutto.
La prima soddisfazione della mia carriera è il primo articolo firmato in prima pagina. La seconda è quando questo articolo, scritto per la «Gazzetta di Modena» viene, chissà come, ripreso da una rassegna stampa nazionale al Tg3. Ancora adesso, quando ricevo lettere di critica o di consenso, sono molto contento. Solo il silenzio uccide.
So tuttavia che il minimo errore mi angustia. Una volta, su «La Stampa», ho scritto «les italiennes» anziché «les italiens» e sono stato male per una settimana. Al «Messaggero » ho definito Cesare Previti ministro degli interni, anziché della difesa, e per fortuna me l'hanno corretto in redazione: nondimeno mi sono vergognato come un ladro.
Non ho mai fatto uno scoop, credo. Il mio mestiere è provare a interpretare la realtà contemporanea cercando di vederla fuori dagli schemi. Quando su “la Repubblica” ho descritto la politica italiana come un format, e mi sono accorto che tutta l'Italia che vive di informazione ne parlava, be', mi son detto: «Berselli, come te ce ne sono pochi>). Ma poi ho riacceso il computer e ho ripreso a scrivere: non è vero che ogni commento o ogni articolo deve essere geniale per forza. Il giornalismo è un lavoro, è assiduità. Si migliora scrivendo, non distillando rari concetti dall'empireo di un lessico illuminato dalla divina ragione. A me piacciono gli scoop intellettuali: vedere quello che gli altri non hanno visto. Dev'essere stato Goethe che ha detto: il genio è la capacità di vedere l'ovvio.
Il passato è passato. Oggi la qualità media si è molto elevata. Un Biagi, un Bocca, un Montanelli oggi farebbero fatica a emergere. La qualità viene sempre, o quasi sempre, a galla, ma processi di identificazione popolare come quelli avvenuti con alcuni protagonisti del giornalismo italiano attualmente sono improbabili.
Oriana Fallaci era una bravissima cronista, in gioventù; con l'età le è venuta la mania di fare romanzi bruttini o bruttoni, con il suo italiano sempre curvato dal fiorentino (io vo, io fo, pel mio piacere: ma facciamo il piacere) e una psicologia selvaggia secondo cui nel mondo esisteva soltanto una persona superiore a Oriana: la Fallaci.
Tutti danno lustro alla categoria. La categoria esiste perché ci sono grandi intellettuali e sublimi cialtroni. Le differenze, in materia, sono irrisorie.
Si diventa una firma firmando. Cioè lavorando. Prendi un intellettuale, un filosofo, un politologo, e mettilo alla prova sui giornali. Non funziona quasi mai. Pochi ce la fanno. Perché il genere giornalistico è un genere a parte: non si può pubblicare una pagina del manuale di filosofia, non conviene rifarsi alle grandi idee, agli schemi della scienza politica. Occorre applicare una cultura generale al caso specifico, alla notizia. E quindi non è affatto detto che un bravo studioso sia in grado di essere efficace quando deve stare «Sul pezzo». Di solito fa acrobazie sulle teorie, provocando un'immediata caduta dell'attenzione.
Le tecniche per scrivere un pezzo? Ci penso prima, a lungo. Poi sono rapidissimo. Quando ho tempo, impiego delle mezze ore a cercare una formula efficace, a cambiare una parola. Di solito, in questo modo, il pezzo migliora come qualità. A volte perde un po' in immediatezza. Insomma, non sono mai contento. Rileggo sempre molto.
A me piace occuparmi di cose che non conosco, e quindi mi documento. Altre volte, soprattutto per ciò che riguarda i commenti politici, grandi ricerche non sono necessarie, a meno che non mi serva un riferimento specifico che voglio valorizzare. Io cerco di fare allo stesso livello ogni articolo. Sono fiero, o meglio abbastanza soddisfatto, di tutto quello che faccio senza distinzioni fra articoli importanti e articolO li meno significativi. Certo, quando feci il pezzo su «la Repubblica » dedicato al «Fattore C», cioè la fortuna di Prodi, ero convinto che l'articolo era un pezzo di bravura. Ma anche certi articoli come «La politica come format» sono stati molto apprezzati e sono piaciuti perfino a me.
L'obiettività esiste quando uno dice o fa capire da che parte sta e non nasconde i fatti e non maschera le opinioni. L'obiettività astratta è una invenzione finto-anglosassone. Sempre meglio la stima dei lettori. Solo che i lettori che ti stimano stanno zitti, non ti scrivono. Mentre i detrattori ti riempiono di insulti, critiche, ti danno dello stupido o peggio del venduto. Adesso, poi, con i blog, c'è una quantità di gente che si sente in grado di criticare (mentre con il passare del tempo io critico sempre meno, mi accontento di descrivere).
E ogni volta che devo fare un pezzo complicato mi riempio di dubbi e di adrenalina, come se fossi un ragazzino alle prime prove. Alla fine, quando il pezzo è finito, mi do inutilmente dello stupido. Ma evidentemente sono ancora un fanciullino, davanti alle difficoltà del mestiere.
Un buon attacco è quello che dice subito di che cosa stiamo parlando. Detesto i giornalisti che la prendono alla larga. Dire tutto e subito, per favore. Dopo ci mettiamo i particolari, lo stile, e una chiusa che dica al lettore: vedi che cosa succede?, ma noi, io che scrivo e tu che leggi siamo in sintonia.
ll gossip mi piace. Come ha detto un bravo psicologo, «la diceria è una daque cognitiva». Ho pubblicato un ampio pezzo, qualche anno fa sull'«Espresso», in cui si spiegava che il gossip è democratico: una volta i pettegolezzi erano prerogativa solo della classe dirigente, da Gianni Agnelli in giù. Adesso, grazie ai rotocalchi specializzati e a Dagospia, tutti siamo praticamente sullo stesso piano. Ho cominciato a scrivere per i giornali con una macchina per scrivere tedesca (Olympia). Scrivevo a mano poi ricopiavo sulla carta quotata. Un passaggio significativo è avvenuto quando sono riuscito a scrivere direttamente a macchina, con poche correzioni a penna. Poi sono passato al primo Macintosh, 1989. Ancora adesso preferisco Apple, anche se non sono un feticista.
Che cosa significa essere giornalisti andrebbe chiesto a un giornalista. Io sono uno che scrive.
Un articolo è perfetto quando sta nel numero di righe previsto, viene consegnato all'orario stabilito, ha un buon inizio, una buona parte centrale e una decente conclusione. E naturalmente anche se riesce a dire qualcosa.
L'italiano deve essere corretto. Cioè senza errori di ortografia e di grammatica (sulla sintassi siamo tolleranti). Poche parole straniere, se non servono. Poche citazioni latine, tanto vengono spesso sbagliate. Poi se uno è brillante, gli concediamo tutto. L'importante è farsi capire. Se si è anche divertenti, eccitanti, eccetera, tanto meglio.
Mi disturbano le frasi fatte. Gli editorialisti che dicono «Intendiamoci», oppure «Diciamo la verità», come se fino a quel momento avessero detto bugie. Oppure i commentatori che annuiscono pensosamente stabilendo cose come: «Bene ha fatto il presidente della Repubblica ... ». Ma chi se ne frega del tuo parere, commentatore! Poi mi danno fastidio gli aggettivi prima del sostantivo (si può quasi sempre posporre, è meglio). Disturba moltissimo il «giornalese», l'artisticità, il menare il can per l'aia.
Le raccomandazioni contano dappertutto. L'Italia è un paese in cui il merito è una parte secondaria nelle carriere. Conosco un importante giornalista che, da direttore di un quotidiano, ha fatto morire un papa con un giorno di anticipo, e ancora viene ritenuto candidabile a posizioni di prima fila. In un paese anglosassone sarebbe a chiedere l'elemosina.
Per me, lavorare per i giornali è un lavoro che non finisce mai. Quando non scrivo leggo per scrivere. Studio per 12 scrivere, programmo le mie giornate per poi scrivere. Il «sempre meglio che lavorare» riguarda un tempo lontano, dove l'alternativa era fare fatica fisica. Adesso lavorare è per molti un piacere. Speriamo che non diventi un privilegio. No, non credo che si possa smettere di essere giornalisti. Si è giornalisti perché si è curiosi. E la curiosità non finisce mai, credo.
Occupo un posto in mezzo agli altri. Le primedonne mi piacciono poco. C'è nel giornalismo una parte di lavoro collettivo che arricchisce le individualità.
Il testo che pubblichiamo è tratto da "Cabaret Italia" (Mondadori, La Repubblica, L'Espresso), volume che riunisce scritti e articoli di Edmondo Berselli, in edicola da mercoledì 8 aprile (a 12,90 euro in più rispetto al prezzo del giornale). Qui le critiche televisive pubblicate sul nostro settimanale nella rubrica "Porte girevoli"