Dopo il coronavirus riprendiamoci le città. Anzi, cambiamole in meglio
Nel Seicento le pestilenze furono un’occasione per ridisegnare gli spazi pubblici. Ora si può cogliere di nuovo (e meglio) questa opportunità. Le proposte di sociologi e architetti (Foto di Michele Borzoni)
Stare a distanza «non è semplice, non è “naturale”, richiede un profondo cambiamento culturale», dice Chiara Volpato, docente di Psicologia Sociale all’Università di Milano-Bicocca. Le file al supermercato e i posti alternati in chiesa, il contatto con la strada, il mezzo pubblico, il parco. La pandemia ha dato una scossa al vivere tra noi, riducendo la fisicità e dando una visibilità nuova alla malattia e alla morte.
Dopo il lockdown, ci stiamo riappropriando delle città tra gli argini di un disciplinamento che ridefinisce il rapporto con lo spazio urbano. Non è certo la prima volta nella storia umana e alcuni processi erano già presenti, ma qualcosa è cambiato. Per Giovanni Semi, che insegna Culture urbane all’Università di Torino, «l’essere umano ha vissuto uno shock globale, mediato dalle differenze interculturali: il distanziamento in alcune culture asiatiche o nordeuropee era più accettato, mentre lo era meno nel Sud Europa o in America Latina. Si è temporaneamente distrutta la fiducia interpersonale, moneta di scambio di ogni relazione. Se scompare la fiducia tra persone, crolla il capitale sociale e diventa più rigido e complicato parlarsi, stare e fare cose assieme».
Il docente sottolinea come si sia instillato il dubbio che l’altro sia un potenziale pericolo. «Si è estesa l’idea, tipica del razzismo, per cui a certe caratteristiche somatiche ne corrispondono altre di tipo morale. Nei primi giorni della pandemia, quando in tutto il pianeta ci sono state aggressioni razziste contro persone dai tratti somatici orientali, abbiamo vissuto l’antipasto di questa estensione di sfiducia». Anche per Volpato la pandemia ha aumentato la percezione dello spazio urbano come spazio minaccioso, denso di pericoli, che spaventano proprio perché invisibili. «Ha provocato una sorta di biologizzazione dello spazio e delle persone, diventate possibili veicoli di contagio. L’incontro casuale con un conoscente è diventato più impacciato e meno spontaneo. Fare la fila ha trasformato in fatica quelli che erano interludi piacevoli. Il rischio è che il distanziamento accresca l’indifferenza per l’altro, soprattutto chi soffre, chiede, mostra il suo bisogno. La vicinanza è un fattore potente per nutrire empatia, disponibilità all’aiuto, compassione».
Alessandro Coppola, docente di Urbanistica al Politecnico di Milano, rintraccia almeno una nota positiva nella quotidianità stravolta dall’emergenza: «Abbiamo osservato una nuova forma di vita pubblica nella quale ci siamo guardati fra sconosciuti come non mai, comunicandoci che sapevamo di essere in una situazione eccezionale. Dell’emergenza salverei questa consapevolezza di condividere qualcosa senza precedenti».
La dimensione sanitaria è stata quasi spiazzata da quella sociale. «L’esperienza con la pandemia è passata più per il distanziamento che per l’esperienza diretta dei virus», osserva Semi. Confinamento e distanziamento hanno fatto risaltare le disuguaglianze sociali, non solo tra grandi ricchi e grandi poveri, ma anche tra chi doveva star chiuso in spazi angusti e chi possedeva un terrazzo o un giardino, che consentono una qualità diversa di vita.
«Osservare dalla finestra di una casa del centro storico o da quella di un palazzone di periferia, restituisce immagini diverse», riflette ancora Volpato. Sull’aumento delle disuguaglianze batte anche Coppola: «Gruppi sociali che vivono in contesti di qualità limitata possono usare la mobilità per migliorare la propria vita. Per chi ha un grande appartamento equipaggiato, la chiusura di un parco è una brutta notizia. Per chi vive in un appartamento piccolo, poco abitabile, è un dramma. La riorganizzazione della vita attorno allo spazio domestico e al vicinato è stata uno dei primi effetti del distanziamento sociale».
Un effetto conseguente potrebbe essere, per Volpato, la rivalutazione del rapporto fisico e della vicinanza tra le persone. «La rete ha avuto in questi mesi un ruolo essenziale, ma essere costretti a interagire forzatamente in modalità online ha anche provocato una grande nostalgia per la vicinanza e la ricchezza del rapporto fisico».
Intorno a questo ruota la recente esperienza dello storico Massimo Rospocher, ricercatore presso l’Isig di Trento, che coordina il progetto di ricerca europeo “Public Renaissance”, incentrato su natura e funzione degli spazi pubblici nelle città del Rinascimento. L’idea è che le piazze, i mercati, le strade, le chiese delle città rinascimentali, come poi quelle attuali, non fossero solo il prodotto dei disegni delle autorità, ma anche delle attività quotidiane di chi li viveva.
«Durante l’emergenza, di fronte a strade e piazze svuotate, ci è stato chiesto di riflettere sugli effetti della pandemia sul progetto. Sembrava che l’uso degli spazi di aggregazione virtuale fosse un antidoto alla distanza fisica imposta dall’epidemia, e che fosse imminente la sostituzione della piazza digitale alla piazza reale. Invece il lockdown ha ribadito come il movimento e la presenza degli individui negli spazi pubblici siano una caratteristica vitale delle città», riflette Rospocher.
«Sembra ci sia accorti del ruolo essenziale degli spazi pubblici nella vita urbana proprio quando questo è stato negato», sottolinea l’architetto Margherita Manfra del collettivo Orizzontale: «Nel momento in cui abbiamo finalmente ricominciato ad abitarli, lo abbiamo fatto in modi nuovi». In una prima fase, come osserva Semi, in Italia per la prima volta dopo decenni abbiamo capito il significato di vuoto e di abbandono. Poi le nuove regole hanno disseminato ostacoli per la città. Bar con percorsi obbligati, posti in chiesa o sui mezzi pubblici dov’è vietato sedersi, frecce che indicano il senso di marcia nei centri commerciali. Una novità solo apparente, se si osserva il quadro più complessivo.
«La città è più che mai piena di divieti, compartimentazioni e limiti. Ma questa è una tendenza in atto da tempo», dice Manfra: «Da un lato gli investimenti privati producono spazi intrinsecamente orientati al controllo e al profitto, dall’altro vengono usate strategie di trasformazione dello spazio che si rivelano armi di esclusione e segregazione». Se si inquadra la vicenda in un respiro più ampio, la storia della pianificazione è storia di organizzazione del distanziamento e della separazione, spiega Coppola. «L’urbanistica nasce per separare usi ritenuti incompatibili sulla base di ragioni di igiene e salute pubblica, ma anche per separare usi lesivi degli interessi dei detentori di proprietà».
E ancora con lenti storiche, graduate sulla reazione alle epidemie, Rospocher individua radici importanti nelle città italiane del Trecento: «Hanno costituito un modello, stabilendo protocolli essenziali nella lotta ai contagi dei secoli successivi. Le autorità cittadine del Rinascimento, di fronte alla peste, crearono magistrature permanenti per gestire la sanità pubblica e imposero restrizioni alla mobilità dei cittadini: interi quartieri divennero zone rosse, furono vietate forme di assembramento sociale, si chiusero locande, taverne, chiese», spiega.
Per comunicare le norme di comportamento e mantenere il distanziamento, si fece ampio uso dei media del tempo, la stampa di bollettini o i proclami dei banditori. Ciò, ricorda Rospocher, ebbe un impatto a lungo termine sulla pianificazione urbana: dalla riorganizzazione degli usi sociali degli spazi pubblici alla costruzione dei lazzaretti, alla pavimentazione delle strade per evitare che fango e polvere favorissero il contagio come si credeva. «I cambiamenti coinvolsero anche gli spazi privati: come oggi ridefiniamo le nostre abitazioni, diventate uffici iperconnessi, così negli alloggi del tardo medioevo si iniziarono a dividere gli spazi per dormire da quelli per vivere». Insomma, le pestilenze europee tra Trecento e Seicento furono un’occasione per ripensare il modo di vivere delle città. «La speranza è che questa opportunità sia colta anche nel prossimo futuro».
Dopo mesi in cui il mondo si è scoperto incapace di qualsiasi programma, congetturare sulle ridefinizioni urbane a venire è un azzardo generoso. Per Coppola, molto riguarderà le forme spaziali dell’organizzazione sociale. «Su scala globale si parla di accelerazione dei processi di de-globalizzazione. Potremmo immaginare una relativa re-industrializzazione di alcuni territori e in generale una maggiore ricchezza funzionale». Ridurre la mobilità produrrebbe impatti considerevoli, come sta già facendo sui flussi di merci e quelli turistici. «È evidente la crisi di quelle città che hanno riconvertito intere zone e pezzi di economia urbana al turismo: si pensi a quanto sono spettrali oggi i nostri centri storici».
Semi è più cauto di fronte a ipotesi di discontinuità: «Due forze spingono per il ripristino del mondo come lo conoscevamo: da un lato il capitalismo, a cui servono la continua circolazione di merci e il loro consumo per potersi riprodurre, dall’altro il bisogno umano di stare assieme. Credo che vedremo ristrutturazioni di entrambe le dinamiche. In fondo la questione riguarda il motore del capitalismo: si è solo temporaneamente fermato o è anche danneggiato?». L’uomo è un animale sociale e la città è il luogo che ha costruito per vivere con gli altri, sostiene Manfra: «L’impressione del nostro studio è che il distanziamento fisico ci stia facendo fare esperienza diretta, per negazione, di quanto istintivo e vitale sia questo bisogno. La mancanza ha fatto esplorare nuovi modi di entrare in relazione», aggiunge.
Durante il lockdown, finestre e balconi si sono trasformati in spazi di condivisione, abbiamo coltivato inediti rapporti di vicinato, dato vita a reti solidali e collaborative. «Ora dobbiamo prendere le misure per questa nuova, temporanea convivenza. Rileggere gli spazi attraverso soluzioni flessibili e creative, adeguandoli ai nuovi bisogni. Espandere gli spazi a disposizione invece di ridurre il numero delle presenze o le possibilità di ciascuno. Questo scarto immaginativo permetterà non solo di vivere al meglio questo momento di passaggio, ma anche di allenare la capacità di reinventare dal profondo la nostra vita pubblica».