Roma, ottobre 1943. Mentre i nazifascisti rastrellano il ghetto, alcuni medici nascondono un centinaio di persone. Inventano una malattia infettiva e incurabile. E mettono in fuga i militari. Ora un documentario ricostruisce la vicenda

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«Ricordo che mio padre diceva a tutti noi: mi raccomando, se arrivano i tedeschi, tossite». Così Gabriele Sonnino, 82 anni, ricorda l’episodio che salvò la vita ad almeno un centinaio di ebrei romani (non si è mai definito il numero esatto) all’Ospedale Fatebenefratelli, nella città ormai in mano ai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per salvarli il dottor Giovanni Borromeo, col collega Adriano Ossicini, inventò il “morbo K”, malattia molto contagiosa che avrebbe convinto le SS a non avvicinarsi ai malati, come racconta ora il documentario “Sindrome K - Il virus che salvò gli ebrei”, visto su Nove il 24 gennaio.

Borromeo era arrivato a dirigere l’Ospedale, fondato nel 1585 e da allora affidato ai frati, per intuizione del suo economo, il religioso polacco Maurizio Bialek. Dopo la promulgazione delle leggi razziali fasciste, acconsentì a far lavorare il medico ebreo Vittorio Sacerdoti, «che lavorava sotto falso nome», ricorda Sonnino, e avrebbe avuto un ruolo chiave nell’accoglienza di altri ebrei.

Borromeo e Ossicini, convinti antifascisti, in accordo con Bialek avevano già intrapreso un’attività di resistenza, tanto che comunicavano via radio con i partigiani laziali e l’ex generale Roberto Lordi. Quando il 16 ottobre 1943 i nazisti rastrellarono il ghetto, in molti cercarono rifugio nel nosocomio, che distava soli 200 metri. «I tedeschi avevano l’indirizzo di casa di tutti gli ebrei», ricorda Sonnino: «Con la mia famiglia ci rifugiammo anche noi tra i veri malati. Fu allora che Borromeo si inventò questo “morbo di K”, il cui nome si ispirava ad Albert Kesselring, comandante dei nazisti in Italia, ed Herbert Kappler, capo della Gestapo». I medici crearono cartelle cliniche false, e riuscirono a nascondere gli ebrei e diversi fuggitivi polacchi: i tedeschi pensavano che sarebbero morti.

«Un giorno arrivò la notizia che ci sarebbe stato un controllo delle SS», dice Sonnino, «e siccome eravamo in troppi io, la mia famiglia e altri ci rifugiammo altrove». Le SS arrivarono, ma un disguido li fece ritardare e diede il tempo a Borromeo e Bialek di nascondere la radio nel locale caldaia, e istruire i finti malati a non parlare e tossire. I nazisti arrivarono, con un medico della Wehrmacht, e furono accolti da Borromeo che, parlando tedesco, fece visitare i reparti. Davanti alla stanza del “morbo K”, spiegò al tedesco che si trattava di una malattia neurodegenerativa che causava vomito e mal di testa, contagiosa e letale. Il medico fece un rapido giro, a distanza dai letti dove gli ebrei tossivano a più non posso.

I pazienti dimessi, con documenti falsi fatti stampare in una tipografia di Trastevere, si nascondevano altrove. Nonostante il controverso silenzio di Papa Pio XII, Vaticano e preti ebbero un ruolo importante nel salvare vite. Come Giovan Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, nel proteggere Borromeo, a cui diede un documento di Guardia nobile pontificia. «Ci nascondemmo in un’auto nel cortile di un palazzo grazie all’aiuto del portiere», dice Sonnino. «Un giorno uscii con mia sorella per strada e un nazista la afferrò per un braccio. Ci portò al centro del ghetto e un lattaio vista la scena, accorse, schiaffeggiò il soldato e mostrò il crocifisso: aveva commesso un errore. Quell’uomo si chiamava Francesco Nardecchia».