Cinquant’anni fa moriva lo scrittore e sceneggiatore. Lasciando un’eredità di acume e intelligenza, ironia e malinconia più viva che mai

I topi abbandonano l’aereo che cade?... Ennio Flaiano, di cui quest’anno si festeggiano i cinquant’anni dalla morte, era un indipendente. Un indipendente, diceva Geno Pampaloni, che viveva nella solitudine dell’intelligenza. Dove per intelligenza si intende la versatilità - quel suo essere giornalista, sceneggiatore, scrittore, geniale aforista, che attraverso l’acume metteva in prospettiva la realtà, seppur, come scriveva in una lettera a Enzo Forcella, detestasse essere trovato divertente, perché lui non si divertiva affatto. Si sarebbe detto il contrario a vederlo scendere in via Veneto dopo aver incrociato Brancati in bicicletta. Si sarebbe detto un burlone a vederlo inseguire una ragazza con il fisico da modella, fermarla e invitarla a mangiare di più: «La prego, lo faccia per me!».

 

Era uno degli sceneggiatori più richiesti: aveva scritto per Fellini (“La dolce vita, “I vitelloni”, “8 e mezzo”, ecc.), ma anche per Rossellini, Lattuada, Pietrangeli, Risi, Antonioni, Monicelli, Zampa, Ferreri. Era nato a Pescara ma visse a Roma, sempre. La amava e la odiava; la sapeva raccontare come nessuna altro, soprattutto nei film. «Sto lavorando con Fellini e Tullio Pinelli a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa società del caffè che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere...». Leo Longanesi gli disse dopo averlo conosciuto: «Che aspetta? Non perda tempo, vada, vada. Vada a scrivere». E infatti Flaiano scriveva, non solo per il cinema. A ventitré anni, cominciò la sua attività di giornalista. Scrisse su Oggi, Documento, Mondo, Il Corriere della sera, L’Espresso, Il Risorgimento liberale, Omnibus. E non solo, continuava a scrivere anche in altre forme, in altre posture. Come se in quella sua prismaticità e in quel suo trasformismo ci fosse un evitamento: uno sfuggire all’impossibilità di dare un senso alla vita.

Grandi scrittori
Ennio Flaiano, un marziano a Pescara
21-11-2022

Nel “Diario degli errori”, che tenne per vent’anni dal 1950, il suo sguardo si frammenta. La realtà è quel ragazzo scorto per caso a Valenza che giocava da solo a guardie e ladri, facendo entrambe le parti: correndo, sparando e cadendo, prima come ladro e poi come gendarme. La vita prende un senso e poi quello opposto, perché se c’è la Divina Provvidenza, c’è sicuramente anche la “Divina Imprevidenza”, altrettanto vigile. E poi «un corso delle cose, che non è giudicabile». E quel corso delle cose, talvolta - per puro caso - può essere generoso; come quel 22 agosto in spiaggia, quando il teatro viaggiante declamava dall’altoparlante il canto V dell’Inferno e intanto, come colombe dal disio chiamate, arrivarono quattro reattori a fare le loro bellissime evoluzioni sopra la linea dell’orizzonte.

 

Il caso, che torna e ritorna in tutta la sua opera. «Se potessimo saperlo avremmo una chiave della sua storia. Invece così ci appare non più importante di una partita a dadi, dove tutto è affidato al caso», scrive nel suo primo e unico romanzo, “Tempo di uccidere” (1947), con il quale vinse il premio Strega. Il caso come aspetto tangibile di un mondo privo di scopo e direzione. È per puro caso che il camion su cui viaggia il protagonista, un ufficiale che ha preso parte all’invasione italiana in Etiopia, si rovescia. L’ufficiale prosegue il suo viaggio a piedi in cerca di qualcuno che curi il suo terribile mal di denti, ma poi si perde. Quella che ha intorno è una realtà allucinata dal caldo, come calata in un quadro del doganiere Rousseau, con la vegetazione che nell’afa assume l’aspetto di animali impagliati. E mentre cammina senza un’idea precisa del percorso da compiere, intravede tra gli arbusti una ragazza. La donna si sta lavando, strofina la pelle come se il corpo non le appartenesse. Ha un fazzoletto in testa portato con tanta regalità da farla sembrare vestita. L’ufficiale le chiede indicazioni e lei gli risponde, ma a quel punto lui non è più interessato al suo mal di denti. Vorrebbe andarsene, ma non ci riesce. Si trattiene con quella donna incontrata per pura fatalità, fa l’amore con lei, e non se ne andrebbe mai più. Poi, all’improvviso, succede che l’uomo scorge un’ombra nella boscaglia, potrebbe essere un animale, oppure un agguato, e allora, terrorizzato, spara. Quando torna dalla donna, però, la trova ferita. La pallottola è stata deviata da una pietra e ha colpito la ragazza al ventre. L’uomo la fa sdraiare, l’accarezza, ma è troppo tardi per prendersi cura di lei. La ferita è profonda e insanabile, e allora per pietà la finisce: spara il suo colpo attraverso il turbante bianco. Si è trasformato in un assassino; ancora una volta per colpa del caso. Dopo averla seppellita con amore, se ne andrà senza andarsene mai.

 

C’è qualcosa di inspiegabile nella realtà, sembra ripetersi l’autore. «Quando credo di essere, non sono. Di avere, non ho»: la Mostra a lui dedicata, al 39° Festival internazionale del film di Locarno, aveva scelto questa didascalia per accompagnare la fotografia di copertina in cui Flaiano appare tra le luci argute e le ombre malinconiche del suo viso. Per Carlo Bo, Ennio Flaiano è il primo a essere colpito dall’universale tristezza delle cose. Lui che aveva una figlia amatissima, Lelé, malata di encefalite e preda di continue crisi epilettiche. «C’ è un amore», confessò Flaiano ad Aldo Tassone, «quello che ho io per mia figlia o quello che ha mia moglie per mia figlia, che è un amore purissimo». Un dramma che proteggeva con la sua discrezione, il suo essere appartato. E allora se tutto è demandato al caso, non si può che essere estatici osservatori dei nonsense: gli eventi inspiegabili che popolano la realtà; come il camaleonte che se ne va per la foresta africana con una sigaretta in bocca. Oppure come “i divorziati” del “Diario degli errori”: un giornalista lascia la moglie per una mannequin, ma nel frattempo la mannequin sposa un omosessuale perché molto affezionata al cane di quest’ultimo, e così il giornalista divorziato rimane senza donna. Non trova alloggio ed è costretto a vivere dalla ex coniuge, che intanto riceve il suo amante ogni sera. Oppure i nonsense della guerra che racconta in “Aethiopia”, diario della sua avventura militare tenuto tra il 1935 e il 1936. Pare che gli etiopi continuassero a ripetere: «Italiani baciare bene, noi baciare male». Ma, scrive Flaiano, l’attività sessuale c’entrava ben poco. I fanti dell’esercito italiano erano soliti partire all’attacco con il fucile e una bomba nella mano libera. Per innescare la bomba strappavano la linguetta con i denti. Gli etiopi li avevano osservati a lungo, così una volta intercettate e rubate diverse casse di esplosivo, passarono al contrattacco nell’azione dello Scirè. Prima di lanciare le bombe, tuttavia, si limitavano a baciarle, perché così gli era sembrato che facessero i nemici. «Col risultato che le bombe rimanevano inesplose e venivano subito usate dagli italiani».

 

Adamante, protagonista di uno dei due racconti della raccolta “Il gioco e il massacro” (1970), gelido, tagliente, brillantissimo con la sua faccia da Humphrey Bogart vive disorientato dal caos della realtà. Liza Baldwin, invece, fidanzata a New York con lo sceneggiatore Giorgio Fabro, si rivela diversa da come sembra. Una sera litigano, lei ha strappato i racconti di Giorgio. Liza si nasconde sotto un letto, lui la prega di uscire ma lei gli morde la mano, per poi cedere alla prima carezza e strofinargli la testa sul petto. Liza si mostra in tutta la sua inaspettata natura di donna-cane.

 

«Il gioco è questo, un gioco di parole: / Se dico cielo, tu rispondi fango. / Se dici: amore, io rispondo prigione, / il gioco è fatto. Tanta è l’abitudine / alle parole! Ma capirsi è inutile”, scrive nella “Valigia delle Indie” (1996).

 

Se le parole non servono, se tutto è dominato dal caso, non ci resta che ripetere i nostri errori e nella ripetizione cercare di trasformarci: trovare una salvezza nella metamorfosi, mentre ridiamo di ogni nonsenso. E mentre ridiamo, non facciamo che diluire ogni tristezza. «La ragazza baciò il ranocchio e divenne una rana».