Con un libro di oltre mille pagine il grande scrittore elogia l’autore americano de “Il segno rosso del coraggio” scomparso a soli 28 anni. E lo colloca nel gotha della letteratura statunitense

Non credo che esista, a memoria d’uomo, un omaggio tributato da uno scrittore a un altro scrittore, che sia, anche lontanamente, simile al lavoro di riesumazione, direi quasi di resurrezione, che Paul Auster ha fatto nei confronti di Stephen Crane. E l’ha fatto con un volume di oltre mille pagine, edito in Italia da Einaudi, dal titolo “Ragazzo in fiamme”. Un volume di oltre mille pagine, si diceva, per raccontare ventotto anni di vita. Tanto è il tempo trascorso dall’autore de “Il segno rosso del coraggio” su questa terra. È evidente che il destino di certi artisti è di avere tantissime cose da dire e pochissimo tempo per dirle.

© 2017 David Levenson

L’omaggio di Auster, sontuoso come la piramide di Cheope o come il Taj Mahal, si concentra proprio sulle tantissime cose anziché sul pochissimo tempo. Certo può apparire azzardato accostare un’opera letteraria ad un monumento che è anche un sepolcro, ma nel caso del “Ragazzo in fiamme” è assolutamente calzante. Innanzitutto per l’ubicazione dell’edificio: Auster posiziona Crane, senza mezzi termini, nel Sancta Sanctorum della letteratura americana. Alla base di questo possente lavoro c’è infatti un evidente intento di sistemazione, e forse di risarcimento. Auster si è chiaramente assunto il compito di far accomodare questo gigante, mai diventato adulto, sullo scranno che gli spetta nella stanza dei padri americani: Poe, Melville, Withman, Conrad, Faulkner, Hemingway, Salinger. Ma non solo: esiste anche una precisa volontà di comprendere questo “monumento” in quello che si potrebbe definire un Grand Tour mondiale delle opere capitali della modernità. La lista di Auster a questo proposito è asciutta e chiarissima: “Il segno rosso del coraggio”, “Fame”, “Alla ricerca del tempo perduto”, “Gita al faro”, “Ulisse”, “Mentre morivo”. È evidente che quando si decide di tracciare un canone della modernità ci si assume l’onere delle proprie scelte, tuttavia questa lista non è affatto gratuita, ma risiede in un pensiero piuttosto coerente come è quello di inserire il defilato Crane, e il rovello adolescenziale del soldato Henry Fleming, protagonista della sua opera principale, nella lista di coloro che hanno inaugurato la tendenza a costruire storie basate su un’interiorità appassionata. Secondo questa coerente visione l’edificio Crane è come una costruzione troppo avanti per i suoi tempi, di quelle che solo pochi illuminati possono apprezzare, ma è proprio questa caratteristica a determinarne l’importanza e, soprattutto, la durata.

Nella letteratura americana, e dunque mondiale, Stephen Crane corrisponderebbe a quello che in architettura ha rappresentato la “Casa sulla cascata” di Wright, trentanove anni esatti dopo la sua prematura morte. Infatti Paul Auster dedica ogni singola riga di queste straordinarie mille pagine a dimostrare, punto per punto, quanto questo autore anarchico, precoce, sprecone, sotto molti aspetti indolente, sia stato fondamentale per individuare in tempi non sospetti, e imporre a rilascio lento, un punto di vista letterario “organico” che a molti, troppi, oggi, appare scontato. Esiste poi il peso romanzesco della vita breve di questo intemerato e perenne adolescente, tanto da far sembrare “Ragazzo in fiamme” un’opera di finzione dove, al contrario, è una biografia documentatissima, con tanto di contributi fotografici: fogli manoscritti, immagini private, disegni, appunti, corrispondenze, testimonianze, eccetera. L’idea cioè che, raccontata a posteriori e da una penna sopraffina, ogni esistenza possa apparire assolutamente straordinaria. Tuttavia la vita breve di Stephen Crane straordinaria lo è stata davvero, avventurosa come quella di Jack London, errabonda come quella di Hemingway, scandalosa come quella di Henry Miller, ma enormemente più concentrata. Non a caso questo ragazzo, che non fa in tempo a diventare uomo, è definito in fiamme. Ha tendenze monogamiche, Cora Taylor resterà il suo grande amore, ma consuma compulsivamente sesso mercenario. Deve correre, bruciare le tappe, sperimentare i propri talenti e fare il poeta, il narratore, il giornalista, spesso contemporaneamente. Prima che la vampa dell’esistenza lo divori deve subire lo smacco dell’insuccesso e poi quello del successo come Mozart, Basquiat, Jim Morrison, Alain Fournier.

Deve spostarsi da New York al Messico a Cuba in Grecia come inviato di guerra. Deve capire che cosa significhi vivere nella propria carne la frustrazione del fallimento, il morso della fame, ma anche il soffio dell’entusiasmo, il privilegio, o la maledizione, di possedere un talento strepitoso con le parole. E deve fare tutto in fretta, con una velocità che possa raddoppiare quel poco tempo che ha a disposizione. Di questa attitudine fulminea, di questo capacità performatica racconta Auster nell’esposizione incommensurabile, monografica e universale, che è “Ragazzo in fiamme”.

Stephen Crane è una falena, e come ogni falena ha la passione della fiamma, ci gira intorno: scrive per vivere e vive per scrivere. Rompe gli schemi, e spesso sbaglia, perché sa di non avere abbastanza agio per muoversi con destrezza. Scrive con l’efficacia di un velocista naturalmente costruito per bruciare il traguardo nel più breve tempo possibile, secondi, decimi di secondo: cinque romanzi, Tra cui “Maggie”, “Il mostro”, “Il segno rosso del coraggio”; due volumi di poesie, tra cui “Cavalieri oscuri”; centinaia di articoli giornalistici, interi volumi di reportage bellici in quattro anni. Asciutto, nervoso, non alto, in ogni ritratto che lo immortali Stephen Crane guarda dritto in camera con una sfacciataggine che non appartiene al suo tempo rappresentato dalla sussiegosa prossemica della Gilded Age.

Spesso sporco e trascurato nel vestire si scolla dalla carta moschicida delle convenzioni. Ma l’uomo e l’artista non sono la stessa cosa anche se abitano lo stesso corpo. Almeno due enormi scandali investono Crane entro il compimento dei ventiquattro anni: uno che riguarda un articolo sui sindacati e mette nei guai Whitelaw Reid, proprietario del Tribune, il giornale che gliel’ha commissionato, tanto che Reid stesso deve rinunciare alla candidatura di vice presidente degli Stati Uniti; l’altro quando, nel settembre del 1896, si inimica la già da allora potente polizia di New York presentandosi, come teste a favore, in una sala di tribunale dove si discuteva la causa di una prostituta che aveva denunciato un agente. E tutto questo vissuto in senso letterale e letterario come un’anticipazione, una premonizione in terra di quel Paradiso della scrittura che gli spetta e sta precocemente per raggiungere. Perché, per dirla con Menandro, muor giovane chi agli Dei è caro. E, nonostante il tempo breve, Stephen Crane un po’ caro agli Dei, magari a quelli della scrittura, doveva essere stato se è vero che l’ultimo Natale della sua vita, quello del 1899, sei mesi prima di morire di tubercolosi, lo trascorrerà in compagnia di Joseph Conrad, quello di “Linea d’ombra”, Herbert Georges Wells, quello de “La macchina del tempo”, Henry James, quello di “Giro di vite”.

Una concentrazione spaventosa che è bello considerare come una specie di ultima luminosissima fiammata prima dell’estinzione fisica. L’intensità senza limiti di uno scrittore che si consuma molto più velocemente dell’universo narrativo che ha generato. Il corpo mortale di un genio immortale.