L’impegno come volontaria, la riflessione sulla lingua che cambia in guerra, la certezza della vittoria. La testimonianza dell’autrice ucraina, originaria del Donbass e da anni a Kiev: «Sto lavorando a una nuova poesia, si chiama “Cocktail party”: mi sono ispirata alle molotov che io e tanti altri civili prepariamo per colpire i carri armati russi»

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Il 24 febbraio Lyuba Yakimchuck ha sigillato le finestre con colla e scotch, benedicendo che fossero protette dalle inferriate. La guerra è iniziata e il suono delle armi le è tornato familiare. «Dal rumore che fanno i missili riesco a capire chi li ha lanciati, se noi o gli avversari russi. Oggi per esempio, non hanno mai smesso di piovere su Kiev. Ma ero tranquilla, perché era la nostra difesa aerea». La grammatica della guerra torna in fretta alla mente, affiancata dal senso pratico: «Io e mio marito restiamo in casa. Abbiamo mandato via i nostri due figli, sono lontani e in un posto sicuro. Non ci sono rifugi sotterranei nelle vicinanze e la metro è troppo distante».

Di tutte le parole che potrebbe scegliere per descrivere come si sente, pesca quella più inaspettata: «calma». Poi spiega. «Arriva dopo la paralisi dei primi giorni, intervallata dai brividi all’arrivo di ogni cattiva notizia. Non avevo idea di cosa fare, ora invece è tutto chiaro». La guerra è in casa, ma non l’ha colta impreparata. «Abbiamo partecipato a delle esercitazioni militari organizzate per i civili, sappiamo come comportarci in caso venissimo colpiti, siamo in grado di curare una ferita e farla smettere di sanguinare. Prima dell’invasione abbiamo comprato del carburante, un generatore elettrico, un fornelletto che non dipenda dal gas russo». Lei e suo marito hanno lasciato la macchina in garage, il pieno è fatto ma al momento il veicolo è impossibile da andare a prendere. Per aiutare chi ha bisogno, però, si fanno prestare la macchina da amici e vicini e la stipano di ogni bene di prima necessità: cibo, medicine, abiti caldi, pannolini e bavaglini. Poi fanno la spola tra Kiev e Kharkiv, la seconda città per popolazione dopo la capitale e come lei assediata da giorni. Arrivano, scaricano, fanno salire qualche sfollato, a volte con il suo animale domestico, e ripartono verso Kiev. «Creiamo connessioni. Che sia tra parenti, persone o per prendere un bus o un treno». Ogni giorno, sempre. Riempiendo il tempo e tenendo occupate le mani. Che nelle pause piccolissime ancora scrivono: «Sto lavorando a una nuova poesia. Ridanciana, leggera. Si chiama “Cocktail party”, mi sono ispirata alle molotov che io e tanti altri civili prepariamo per colpire i carri armati russi».

Per Yakimchuk vivere sotto attacco non è una novità. È originaria di Pervomaysk, Luhansk, nella regione del Donbass. Una terra che prima di esser nota per la guerra era fertile e rigogliosa. «La mia città è vicina al confine russo e si dice che una volta lasciata l’Ucraina le albicocche non crescano più». I campi in primavera si riempiono di albicocchi in fiore. Al tempo della crisi economica seguita alla dissoluzione dell’Urss era grazie a quei frutti che molti si sostentavano, vendendoli ai conducenti dei treni in viaggio tra Mosca e Kiev. «Dove non crescono più albicocche, lì inizia la Russia», scrive Yakimchuck in una delle sue poesie più famose, dedicata al suo luogo di bambina. «I miei genitori, che ora vivono in un’altra regione, Poltava, hanno insegnato ai loro vicini come comportarsi in caso di bombardamenti. Li hanno avvertiti di non farsi prendere dal panico ed evitare di correre in strada. Mia madre prepara il pane per chi combatte,

mio padre le molotov. E nel frattempo allestiscono un rifugio. Lo hanno pulito e riempito con qualche panca, mettendo da parte degli abiti per l’inverno».

Mentre aiuta, Yakimchuck osserva la realtà deformata dall’invasione. «La guerra sta alterando le nostre abitudini linguistiche, lo percepisco nell’uso ormai sdoganato delle parolacce. La frase “nave russa, vai a farti fottere” ha fatto il giro del mondo e qui è quasi uno slogan. La leggi persino trasmessa sugli schermi posizionati sulla strada tra Kiev e Kharkiv. Anche “Putin è uno stronzo” viene usata molto, fu coniata da alcuni tifosi nel 2014. Persino i bambini pronunciano le parolacce, quasi fossero una cantilena. I genitori non li sgridano, non lo fanno più dal 24 di febbraio».

Perché la lingua si è fatta linea di demarcazione tra “noi” e “loro”, gli aggrediti e gli aggressori. Strumento utile anche a identificare il nemico. «Oltre a ispezionare le merci, ai checkpoint i militari ucraini sottopongono le persone a un test linguistico. I russi non sono in grado di pronunciare parole che contengano una sillaba dura affiancata dal suono “ya”. Un esempio è la parola “polyanitsya”, che i russi pronunciano in moltissimi modi, tutti sbagliati, mentre gli ucraini riproducono con facilità». Per dissociarsi dall’aggressione voluta da Putin, molti preferiscono usare la versione ucraina dei vocaboli, anche se prima utilizzavano quella russa. «Serve a rifiutare l’idea che esistano dei “liberatori” arrivati per proteggere le città in cui gli abitanti parlano il russo. Non ci sono russofoni né liberatori nel mio Paese, solo invasori arrivati dalla Federazione russa». E il conflitto ha influito anche sul contesto d’uso di certe parole, spiega Yakimchuk: «Prima le parole “eroe” e “sacrificio” nella nostra cultura erano complimenti da riservare ai caduti in battaglia. Oggi, per fortuna, si può essere eroi pur rimanendo in vita, sopravvivendo al nemico. È giusto affrontarlo, ma non a costo di morire. Anche se la morte stessa viene percepita come una cosa naturale, non c’è traccia di paura».

Ma neppure di rassegnazione. «Credo nella nostra vittoria e nella ricostruzione dell’Ucraina. Spero la mia famiglia viva in pace e che Putin venga condannato per i crimini che sta commettendo contro l’umanità. Tornare alla normalità è possibile, ne sono certa e l’ho visto sulla mia pelle con la mia famiglia. La Russia, che è una potenza nucleare più grande di noi, più popolosa di noi e con un esercito numericamente più grande arranca, non si aspettava una tale resistenza». E invece gli ucraini resistono, la guerriglia dei civili schianta molotov contro i convogli avversari e sventola bandiere blu e gialle sotto gli occhi degli invasori, anche se è affamata, anche se è stremata. «I nostri nemici periranno come rugiada al sole», dice Yakimchuck citando un verso che le torna spesso in mente, preso dall’inno nazionale. Chissà quanti altri, in questi giorni, se lo saranno ripetuto.