L’intervento
«L’Espresso è la nostra agenda civile»
Pagine che raccontano il lato anche oscuro del Paese e offrono la chiave per interpretarne i suoi mutamenti e le contraddizioni
«Legge L’Espresso», dicevamo qualche volta di un adulto noi, pochi studenti di sinistra nella Udine “bianca” dei primi anni Sessanta. Voleva dire: possiamo fidarci, è fra quelli che ci possono capire. Ed era così: nell’Italia chiusa degli anni Cinquanta (chiusa anche a sinistra, erano stati presto emarginati nel Partito Comunista gli innovatori del “post ’56”) L’Espresso aveva fatto irruzione come un lampo di luce. In quel che diceva e per come lo diceva. Capace di farla capire, quella Italia, nel suo miscuglio di arretratezza e di modernità contraddittoria, talora impastata con la corruzione: a partire dall’inchiesta di Manlio Cancogni che fece epoca, “Capitale corrotta nazione infetta” (e Antonio Cederna indagherà poi da par suo i segni che la speculazione edilizia stava lasciando nel paesaggio italiano).
Sfogliamo poi le pagine del 1958, anno di inizio del nostro «miracolo economico»: vi troviamo un “Rapporto sul matrimonio” di Antonio Gambino e Gianni Corbi che termina evocando “Il fantasma del divorzio”, incubo dell’Italia più retriva, assieme ad altre inchieste di Cancogni sul primo dissenso cattolico o sul disagio negli atenei (“Le piaghe dell’Università sono cinque”).
Non sono (solo) efficaci titoli giornalistici e ottime inchieste, sono capitoli di un’agenda civile. Un’agenda che negli anni Sessanta deve includere questioni e minacce inattese. Intuite già nell’agosto del 1964 (“Il mancato colpo di stato”) e rivelate per intero nel 1967 da Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi: “Complotto al Quirinale”, per citare il titolo più famoso. Quelle documentate denunce chiamavano in causa le nostre stesse idee sulla democrazia italiana. Erano “sconvolgenti” nel senso proprio del termine, distruggevano le nostre illusioni su di una democrazia come dato “naturale”, garantito per sempre. Verranno poi altre minacce e la pericolosità di quelle trame fu confermata nel 1974 dall’arresto del generale Vito Miceli, fino a poco prima a capo dei nostri Servizi segreti: le prime pagine de L’Espresso fanno comprendere bene quel clima (“Il vero golpe eccolo qua”, “La cospirazione”, “Crisi e golpe”, “Dietro Miceli”, “Oltre Miceli” e così via). Un clima che Pasolini evocava in quegli stessi giorni sul Corriere della Sera: “Che cos’è questo golpe? Io so”. Era cambiata l’Italia, in quel decennio, in un intrecciarsi e confliggere di ventate innovative e di contraccolpi conservatori, talora eversivi.
I giovani che eravamo avevano vissuto poi intensamente il ’68, e per capire quei movimenti L’Espresso è di nuovo fondamentale. Per capire, intanto, la loro incubazione: già nel 1963 Camilla Cederna segnalava le prime occupazioni e dava poi conto delle tensioni innescate da un insegnamento arcaico: «Sono stanchi di copiare il Partenone», scriveva nel 1965, raccontando che nelle facoltà di Architettura erano ancora esclusi insegnamenti come Urbanistica e Storia dell’Architettura moderna. Cioè quello che chiedevano gli studenti, trovando sostegno nei loro insegnanti più aperti: anche loro «leggevano l’Espresso» (e talora vi scrivevano, come Bruno Zevi). Anche in questo caso, come in altri, il settimanale è una fonte fondamentale per lo storico: in primo luogo per capire le radici e le differenze di quei movimenti. E per allargare lo sguardo anche al di là della Cortina di ferro: sono preziosi gli articoli di Angelo Maria Ripellino sull’amatissima Cecoslovacchia. Ed è splendido il reportage scritto da Umberto Eco, di passaggio a Praga il giorno dell’invasione: “Li ho visti danzare attorno ai carri armati”.
Vi è poi il drammatico 12 dicembre del 1969, senza precedenti nella storia della Repubblica, e vi è l’orrenda campagna di stampa volta ad attribuire quelle bombe agli anarchici e alla sinistra. Ma vi sono anche intellettuali e giornalisti come Camilla Cederna che sfidano minacce e climi ostili per raccontare la verità di quella “Bomba contro il popolo” (è il titolo dell’articolo che scrive all’indomani stesso della strage). La verità, anche, sulla morte dell’anarchico innocente Pino Pinelli, su cui indaga sin dal primo momento (la avvertono in quella notte, ricorderà poi, «Corrado Stajano e Giampaolo Pansa (…), rabbia e dolore negli occhi»).
Vengono poi gli anni Settanta, e viene una crisi della sinistra che sembra coincidere con il suo apparente trionfo, dopo l’avanzata comunista del 1975-76. Sembra iniziare con la fase stessa dei governi di unità nazionale, con le lacerazioni del «movimento del ’77» (raccontate da Paolo Mieli, “Il grande Lama e i piccoli indiani”), con i 55 giorni del rapimento di Aldo Moro, e con quel crollo dei miti a livello internazionale di cui è simbolo la disperata fuga di massa dal Vietnam comunista, raccontata in modo intenso da Tiziano Terzani. Da noi irrompe allora Bettino Craxi, che sceglie L’Espresso per pubblicare il suo “Vangelo socialista”, con la contrapposizione di Proudhon a Marx. E poco importa che non fosse farina del suo sacco: tagliava davvero la barba al profeta, come scriveva su Repubblica Eugenio Scalfari. Durò poco, e nel 1983 due processi che coinvolgono i socialisti liguri e quelli piemontesi delineano già lo scenario di Tangentopoli: fanno emergere cioè «un sistema odioso ed esoso che alterava sia la competizione politica che le regole del mercato». Lo scriverà trent’anni dopo Claudio Martelli, e c’è da credergli: Gad Lerner lo scrive su L’Espresso già nell’ottobre di quel 1983 (“Il metodo Teardo”). E nel 1987 Giorgio Bocca ci riconsegna quasi con angoscia la devastazione che si sta affermando: «Era possibile nel West sopravvivere senza violare la legge? E oggi è possibile non rubare in Italia? Dite seriamente, è possibile?».
Sullo sfondo sta avanzando Silvio Berlusconi, e la “guerra di Segrate” per il controllo della Mondadori (e con essa dell’Editoriale L’Espresso) illumina bene uno scenario e la stessa posta in gioco. “Signornò!”, titola il settimanale, e poi “Vade retro”, quando Berlusconi è sconfitto (titoli cui danno corpo gli articoli di Giovanni Valentini), e si era al tempo stesso interrogato sul più generale rapporto fra proprietà e giornali. Pagine da rileggere, oggi. Così come è da rileggere il commento del 1994 di Claudio Rinaldi a quel primo trionfo elettorale del Cavaliere che a molti - a sinistra - apparve allora incomprensibile: “Altro che miracolo!”, scriveva Rinaldi, e illuminava le differenti radici di quel voto. Faceva comprendere l’Italia.
Scenario italiano, e scenario internazionale. In quegli stessi anni, va ricordato, i conflitti e le pulizie etniche nella ex Jugoslavia riportavano la guerra in Europa e si rilegga oggi l’articolo di Antonio Gambino sul dramma del Kosovo (“Pacifisti o complici di Milosevic?”): vi troviamo le stesse domande che anche un pacifista convinto come Alex Langer si era posto nel suo sofferto riconoscere la necessità di un intervento militare internazionale. Domande che attraversavano anche altri articoli de L’Espresso, e domande di oggi: come spesso accade sfogliando i suoi vecchi numeri. Come accade anche sfogliando quelli più recenti, rivisitando vicende più fresche nella memoria. E come vorremmo continuare a fare.