Sono la miscela di militanza civile, cultura, visione del mondo e giornalismo indipendente che hanno reso questo settimanale un prodotto unico

Come s’usa fare prendendo la parola al Parlamento inglese, avverto subito di trovarmi in pieno conflitto di interessi. Perché sto per dire due o tre cose sul giornale che state leggendo, su L’Espresso, di cui, direttamente o indirettamente, ho condiviso le sorti per un bel po’ di anni, più o meno la metà della mia vita professionale.

 

Ecco, fatta questa debita premessa, posso ora confessare che la decisione di cedere la testata mi ha provocato sentimenti vari e inattesi, scegliete voi: dolore, tristezza, disorientamento, rabbia. Ma, lo ammetto, anche una certa ingenua sorpresa. Per più di una ragione.

 

Perché in questa testata, nella E che la inaugura, riprodotta su cartoncini, sagome di legno, carta intestata, e di cui ancora si trova traccia nel logo della Gedi – stampata in “rosso Espresso”, tonalità miscelata apposta molti anni fa per il debutto del colore sul news magazine – in questa testata, dicevo, si riassume la storia intera di un formidabile gruppo editoriale e della sua anima più profonda: quella E, se vogliamo, rappresenta «una certa idea dell’Italia», citazione con la quale Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro hanno più volte spiegato la missione, l’ubi consistam non solo di Repubblica, ma di un’intera e vasta famiglia editoriale. Della quale L’Espresso fa parte a pieno titolo. Anzi, se volete, con qualche titolo in più.

 

Vale la pena ricordare – i lettori lo sanno bene – che proprio nelle stanze di via Po, quando il settimanale corsaro era ormai divenuto un protagonista della vita civile e politica del Paese, nacque l’idea di affiancargli un quotidiano, destinato a diventare una corazzata, e poi la catena di giornali locali, avventura cominciata con il Tirreno di Livorno e poi estesa in mezza Italia, da Salerno a Padova, da Pescara a Sassari, da Pavia a Mantova a Bolzano. E altri ne avrebbe comprati, Carlo Caracciolo, di giornali.

Tanto che addolora, e anche qui stupisce assai, che prima de L’Espresso siano usciti dall’impero Il Tirreno, La Nuova Sardegna, le Gazzette di Modena, Reggio e Ferrara.

 

La nascita de L’Espresso è stata raccontata da Scalfari tante volte, orgogliosamente e da par suo. Ma di quei giorni lontani, della genesi del «lenzuolo» e del peregrinare suo e di Arrigo Benedetti alla ricerca di finanziatori (per fare i giornali ci vogliono un sacco di soldi perché la democrazia costa) vorrei ricordare solo un dettaglio. Girando girando, i nostri eroi illustrarono il loro progetto anche a Enrico Mattei, patron dell’Eni, che ne rimase tanto colpito da dirsi pronto ad aderire. E generosamente. Era fatta, che vuoi di più, si poteva partire. Al momento decisivo, però, Benedetti e Scalfari cominciarono a paventare che l’Eni, l’Eni di Mattei, potesse diventare ingombrante, invasivo, predominante. Così dissero «no, grazie» e tornarono a bussare alla porta di Adriano Olivetti.

 

Ora, non vorrei essere frainteso. Gli anni Cinquanta non erano i Duemila, e quella nave corsara non era ancora un grande gruppo industriale, e dopo ci sarebbe stato bisogno di ben altre strutture, organizzazioni, redazioni. E finanziatori. E al posto degli Olivetti sarebbero arrivati i Mondadori, e i De Benedetti e gli Agnelli. Certo che sì. Prevedibile e inevitabile. Ma allora cosa temevano i padri fondatori? Che non venisse condivisa fino in fondo non solo e non tanto la loro idea, ma l’impronta che intendevano dare al nuovo giornale, il suo spirito libero, il patrimonio di conoscenze e di valori cui faceva riferimento. La sua identità.

 

Già, l’identità. Concetto affascinante, per alcuni vago se non inafferrabile. Eppure fondamentale. Potremmo definirlo la miscela originale di militanza civile, cultura, visione del mondo che rendono quel prodotto unico e diverso dagli altri. Il suo marchio di fabbrica. Al New York Times, che so?, nessun editore si sognerebbe mai di cancellare dalla testata la scritta «All the News That’s Fit to Print»; e La Stampa, tanto per citare un quotidiano a noi più vicino, non ha mai rinnegato quella cultura laica, democratica, azionista che fa tutt’uno con la storia stessa della città di Torino, e infatti mai nessuno ha pensato di metterla in discussione.

 

Identità, naturalmente, è anche un certo modo di intendere il giornalismo. Come spiegarlo? Cura ossessiva della scrittura («Un romanzo che esce tutte le settimane», diceva Benedetti della sua creatura); scelta accuratissima delle fotografie; una certa predisposizione a «fare scandalo» con articoli e inchieste; impegno convinto nelle battaglie civili; determinazione ad aprire porte e finestre che molti volevano chiuse; lotta a ogni forma di corruzione, criminale o politica; attenzione a ciò che di nuovo si agita nella società; molteplicità di opinioni e punti di vista. Il tutto condito con leggerezza colta e con una certa ironia utile a garantire un salutare distacco dalle cose: «Non prendiamoci troppo sul serio», ripeteva con un sorriso Claudio Rinaldi.

 

Di sicuro non esagero se dico che generazioni di giovani si sono formati e informati leggendo L’Espresso riconoscendosi nei suoi valori e nelle sue battaglie, e che la cifra di questo giornale ha influito più di ogni altra sul modo stesso di confezionare la gran parte della carta stampata. E se è vero che la formula del news magazine alla quale molti di noi sono stati educati segna il passo, non è più attuale, si è anche deformata, certo, ha perso molto del suo spirito originario e comunque è superata dal correre dei fatti e dal loro immediato racconto sul web, allora è davvero paradossale vedere che chiunque si accinga oggi ad aprire un nuovo settimanale – e, incredibile a dirsi, negli ultimi anni ne ho già contati quattro o cinque – ripeta ostinatamente di volersi rifare alla lezione del miglior L’Espresso. Evidentemente si parla di stile, di metodo di lavoro, di valori ai quali ispirare una qualunque nuova formula giornalistica, su carta o su web. Innaffiare le radici, non bruciarle.

La parola
Il nostro giornale e il valore del punto di vista
21/3/2022

Sono principi che dovrebbe tenere bene a mente chiunque si accinga a un’impresa editoriale, sia chi ne abbia fatto una ragione di vita, sia chi ci si ritrovi per caso o per dovere. Deve tener conto, cioè, che un’azienda che produca informazione e cultura, se condotta con onestà e responsabilità è anche un servizio alla democrazia, e dunque è in qualche modo una creatura atipica, e deve essere considerata, maneggiata, pesata con criteri diversi da quelli correnti per qualunque altra: «Non è un’acciaieria o una fabbrica di tessuti», ha esclamato Corrado Augias in diretta tv. Giusto. E nemmeno un ramo d’azienda da strappare solo perché non produce più i frutti sperati.

 

Certo, di errori e forzature è piena la storia de L’Espresso, io stesso ne ho commessi alcuni che oggi mi appaiono addirittura imperdonabili; ma in 67 anni di difficoltà e di battaglie aspre gli sbagli sono inevitabili, specie se si sceglie non la comoda uniformità, ma una vita spericolata, e dunque si corrono dei rischi quando per indagare, capire, denunciare si è costretti a imboccare anche strade poco battute e mal frequentate. L’importante è farlo con la schiena dritta, in totale buona fede, senza ascoltare facili sirene, senza cedere a imbeccate interessate, farlo solo per amore di verità. Tutte le verità. Credo che ogni giornalista, ogni collaboratore e in ogni stagione abbia tenuto fede a questi comandamenti, semplicemente perché l’identità de L’Espresso, il senso di appartenenza è dentro di te, è come se ti entrasse sotto la pelle, ti fa sentire parte non solo di una squadra, ma anche di un progetto morale e civile. Che ha segnato la storia dell’informazione e, se permettete, anche del Paese.

 

Forse per questo si dice che quando si indebolisce un giornale è come se si indebolisse un po’ la democrazia e, al di là dell’enfasi del momento, è proprio vero.

 

Stavolta, però, accade anche che contemporaneamente qualcuno, sfidando convinzioni e convenzioni correnti, decida invece di investire in un giornale, in questo giornale, pensando a un futuro «su carta e su web», e vabbè, così dicon tutti. Nell’attesa che si comprenda chiaramente di quale futuro si tratti, non posso che augurare che la sfida riesca, perché – come avrete capito – voglio bene a L’Espresso, alla sua storia e a chi, coraggiosamente e a dispetto di tutto, continua a crederci e a lavorarci. Ma se la vicenda che ho raccontato venisse dimenticata, e quell’identità vieppiù calpestata, se le sue radici venissero estirpate dopo essere state tagliate, allora sì che quella «certa idea» sarebbe morta. E con essa anche un pezzo importante della nostra democrazia.