L’intervento
Marcello Fois: «Il Premio Strega determina o subisce il mercato?»
Lo scrittore sciorina una serie di domande scomode intorno al più importante riconoscimento letterario italiano. Tra le altre: “Un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina?”
Qualche tempo fa, in un salotto bolognese, dopo aver assistito alla presentazione di un romanzo, si discuteva sul fatto che, per ragioni apparentemente imperscrutabili, il Premio Strega avrebbe, come dire, cambiato pelle. La qual cosa, ben inteso, non è un male di per sé, ma lo diventa se questo cambiamento rappresentasse un travisamento, se non un vero e proprio tradimento, della sostanza che ha fatto diventare questo riconoscimento il più importante dell’editoria, a volte anche della letteratura, italiana. Gli argomenti sul tavolo erano vari. Primo fra tutti quello che riguarda il mercato come punto attraverso il quale si possa monitorare il peso, crescente o calante, della manifestazione. Ma il Premio Strega il mercato lo determina o lo subisce? Si chiedeva qualcuno. Una domanda tutt’altro che peregrina considerato il fatto che, nella composizione delle cinquine sempre più spesso si fa riferimento alla presenza di romanzi che sono già sul mercato e hanno già manifestato un riscontro da parte dei lettori. Perciò la domanda, presa d un altro punto di vista sarebbe: un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina? O meglio: la presenza in classifica favorisce l’ingresso in cinquina qualora quel romanzo sia stato proposto, poi selezionato per i dodici e così via? È una domanda che attiene ad un punto diciamo deontologico di un premio di questa caratura e cioè il vezzo di sondare la scrittura del nostro Paese sorvolando le secche di ciò che va di moda e tenendo la barra su ciò che si propone, ed è progettato, per resistere. Si capisce da subito che tutte le domande che la società letteraria può farsi su questo argomento su questo argomento sono necessariamente domande scomode. Innanzitutto perché una delle caratteristiche dell’agire intellettuale, è proprio di non aver nessuna paura delle domande scomode.
Scomodissima è la domanda sul fatto che sia lecito o meno favorire l’ingresso di esordienti assoluti nel novero dei candidati e qualche volta dei vincitori. La nota teoria Pirandello metteva in guardia dall’ammettere ai premi letterari, che non fossero dedicati specificatamente a quella categoria, esordienti assoluti, o opere prime. E questo perché, affermava il nostro Nobel, ci sono premi che prospettano carriere e premi che certificano carriere. Mi sembra una questione seria, che ha a che fare ancora una volta col peso specifico che un riconoscimento pubblico deve, o dovrebbe considerare, prima dell’assegnazione. Ora qualcuno obbietta che una manifestazione consolidata come il Premio Strega ha anche il dovere di sondare il nuovo che avanza non solo di attestare carriere in corso. Secondo altri inseguire la novità significa troppo spesso confondere il nuovo col nuovismo e adattarsi supinamente all’idea che basti essere giovani, o, peggio, giovanili per garantirsi un posto tra i candidati. Poi c’è la questione annosa di quello che i detrattori chiamano “Cencelli editoriale” e sarebbe: davvero tutte le casa editrici o varie, grandI e piccole, debbono necessariamente essere rappresentate al Premio Strega? Faccio la domanda diversamente: stiamo parlando di una gara tra autori e romanzi o tra case editrici? Chiarisco che se dovesse assodarsi la seconda ipotesi non ci sarebbe niente di male. Ma, al momento, il nostro premio, pare ancora attribuirsi ad opere di narrativa, con tutte le estensioni del caso. E se venisse fuori che in un anno specifico tre romanzi di un’ipotetica cinquina sono dello stesso editore? Sarebbe un problema? Vale a dire: si può escludere un ottimo romanzo di una casa editrice per far posto ad un mediocre romanzo di un’altra casa editrice in deficit di rappresentatività? E la quota per le piccole case editrici? E se capitasse un anno che tutti i libri degni della cinquina, secondo gli Amici della Domenica siano di piccole case editrici?
E qui sorge la domanda delle domande. Il Premio Strega ha finito per decretare il suo vincitore attraverso il doppio turno tra giuria “tecnica” e “giuria popolare” come il Campiello, o è rimasto quel Premio di cui la Bellonci affermava essere l’unico deliberato da un’ampia giuria di pari provenienti dal mondo della letteratura, dell’arte, del cinema, dello sport, della società civile? Le novità di questi anni per quanto riguarda proposta, selezione ed esclusione dei candidati pare far propendere proprio per quel modello in cui questa giuria di pari avrebbe un nucleo di più pari che decide per tutti. E lo dico da amico della domenica che ogni anno, spero con grazia, svolge al meglio che può il suo compito di giurato. Lo dico anche da passato candidato alla cinquina. Ho un grande rispetto e stima per i miei colleghi che si sono presi l’onere di far parte del gruppo dei più pari, ma non nego che spesso soffro questa sperequazione, perché se mi si dice che ho libertà di proposta, che cioè posso segnalare al premio un romanzo che secondo me merita attenzione, quell’attenzione deve avere un senso. La mia presenza nel gioco dei pari deve essere equipollente. Se no mi si dica con chiarezza che, per mutazione genetica, questa parità non esiste o che viene congelata fino a che i più pari non avranno stabilito una dodicina sui libri proposti. E quest’anno sono stati 74. Ad essere schietti si dovrebbe avere il coraggio di dire che le riforme continue del sistema di voto dello Strega hanno trasformato parte della giuria di pari in una giuria popolare. E, ancora e sempre, non ci sarebbe niente di male in questo a patto però che non si proclamasse il contrario. A patto cioè che non si insista con la retorica del Premio a sé. Un libraio presente nel salotto bolognese da cui questa mia riflessione ha preso il via, ha concluso amaramente, proprio prima che ci congedassimo, che il Premio Strega ormai offre una cassa di risonanza notevole solo ai libri che già funzionano e che non è più in grado di determinare un’alternativa all’attuale, generare un Pantheon, consacrare una carriera letteraria. Lo faceva, dice il libraio, non lo fa più.