Una storia vera nella Mosca anni Trenta. Metafora della pandemia e della censura. Mentre esce un nuovo libro, la dissidente russa parla del regime, della guerra. E del sogno democratico. In mano alle donne

Ludmila Ulitskaya fa parte di quel filone dell’intellighentsia russa che da decenni cerca di resistere alla retorica cara ai poteri costituiti, perché coltiva invece un ethos civile e repubblicano e sogna un Paese democratico. E che oggi, naturalmente, è contraria al regime di Putin e all’aggressione contro l’Ucraina. Di formazione scienziata genetista, ha frequentato, fin dagli anni Settanta, quei circoli soprattutto moscoviti - ma presenti pure a Leningrado - in cui ci si riuniva nelle cucine dei piccoli e densamente abitati appartamenti, si discuteva dei libri pubblicati in samizdat (edizioni clandestine), si recitavano i versi di poeti assassinati come Osip Mandelstam, o proibiti dal regime come Josif Brodskij o Anna Achmatova. Ha debuttato come scrittrice a fine anni Ottanta e oggi, 79enne, è un’autrice popolare e amata nel suo Paese. E tradotta in una trentina di lingue.

 

I suoi libri, “Il sogno di Jakov”, “Una storia russa”, “Daniel Stein, traduttore”, “Il dono del dottor Kukockij”, per citarne alcuni, in Italia sono pubblicati per lo più da La nave di Teseo. Più volte indicata come candidata al Nobel per la Letteratura, nei suoi romanzi non parla direttamente di politica ma racconta, in modo tenero e al contempo acuto, i destini e le scelte delle persone. Ora, è ospite a La Milanesiana, rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, dove per due serate è in dialogo con altre scrittrici, mentre sempre per La nave di Teseo è in uscita un suo testo, “Era solo la peste!” (nella traduzione di Margherita di Michiel), che racconta una storia vera accaduta nel 1939, e che può essere letta come una metafora dei tempi della pandemia.

 

Intanto, lei, a pochi giorni dall’invasione dell’Ucraina si è trovata a Berlino con una piccola valigia e il desiderio di tornare, un giorno, chissà quando, a casa sua a Mosca. L’abbiamo intervistata, via mail, in russo. Ulitskaya precisa: «Non sono scappata dalla Russia. Mio figlio maggiore ha deciso che dovevo spostarmi all’estero, senza avermi chiesto se volevo andarmene davvero. Se quella domanda l’avesse fatta, probabilmente ci avrei pensato a lungo. Ma lui è una persona che ama decidere. Ha deciso che una vecchia andasse portata via. E ha agito in fretta». Facciamo presente, che migliaia di persone, per lo più intellettuali e di ceti medio-alti hanno lasciato in queste settimane il Paese. E ricordiamo che esattamente cent’anni fa, nel 1922, da San Pietroburgo salpavano le due “navi dei filosofi”, con a bordo il fiore dei pensatori russi, diretti verso la Germania, l’Occidente e l’esilio. E allora, cosa è che non va nel rapporto fra il potere e l’intellighentsia? Risposta: «Il conflitto con il potere sta nella natura dell’intellighentsia, un ceto che da quando esiste ha sempre cercato di rendere il potere più umano e di farlo agire entro limiti costituzionali, un atteggiamento che il potere appunto non ha mai gradito».

Ulitskaya, l’abbiamo detto, è anche una custode della memoria dell’intellighentsia. Nel bene e nel male, comprese le peregrinazioni. È nata in “esilio” in Baskiria, sugli Urali. Suo nonno è stato tre volte prigioniero dei Gulag. Lei precisa: «Quando le truppe naziste si avvicinarono a Mosca, centinaia di migliaia di persone furono sfollate, fra cui la famiglia di mia nonna. È una parte della vita che veniva raramente evocata. Era meglio dimenticare che ricordare, per sopravvivere. Mia nonna con bambini, tre anziani e un oggetto importante, la macchina da cucire Singer, che oggi è nel mio appartamento a Mosca, si trasferiva in Baskiria mentre suo marito, mio​ nonno Boris Ginzburg, scontava la sua condanna nell’Estremo Oriente, non lontano da Vladivostok. Ma c’era, in quel luogo di Baskiria, pure una macchina da scrivere, perché la nonna guadagnava soldi non solo cucendo vestiti per i vicini, ma anche battendo a macchina documenti». Quella macchina nella leggenda familiare è diventata un simbolo di come affrontare le difficoltà della Storia.

 

Ecco, insistiamo sulla questione della memoria. Ulitskaya ha frequentato personaggi come Brodskij, Andrej Sinjavskij, condannato a sette anni di reclusione, nel 1966 per aver scritto e pubblicato un libro all’estero, Natalia Gorbanevskaja, una meravigliosa poeta, che nell’agosto 1968 protestò in Piazza Rossa contro l’invasione della Cecoslovacchia e fu rinchiusa in una clinica psichiatrica e poi costretta all’esilio in Francia. Cosa ha imparato da loro? «La vita è andata in modo tale che ho conosciuto gli scrittori che ha citato e ricordo pure Maria Rozanova, la moglie di Sinjavskij, dai tempi in cui fabbricava oggetti di bigiotteria, per guadagnare un po’ di soldi, mandarli al marito in prigione, e per sfamare il figlioletto. Sinjavskij l’ho visto a Parigi, un anno prima che scomparisse. Sono stato amica di Gorbanevskaja per decenni. Sono stati grandi maestri ma non posso definirmi un’allieva di nessuno di loro. Però mi toglie il fiato il solo pensiero su che cosa si riesce a capire grazie alle biografie di queste persone, persone che la vita mi ha fatto il dono di frequentare».

 

Forse in Russia, fin dai tempi dall’Ottocento, azzardiamo un’ipotesi, la letteratura è un atto politico? «Sembra banale, ma è un’ipotesi veritiera. In Russia tutto cambia e nulla cambia. Aleksandr Pushkin e Michail Lermontov furono mandati al confino, Mandelstam e Boris Pilniak (grande scrittore del Novecento, Ndr.) uccisi. Tuttavia va detto che le autorità oggi non prestano molta attenzione alla letteratura. Il potere è più interessato agli yacht e agli immobili che non ai romanzi e alle poesie». Ma esiste un’opinione pubblica, in un Paese dove la stampa indipendente è scomparsa, traslocata all’estero, è vietato chiamare la guerra guerra, e i giornalisti sono uccisi, basti pensare ad Anna Politkovskaja? «L’opinione pubblica esiste sempre: a volte è rumorosa, altre volte latente, espressa solo “in cucina”, fra le mura domestiche. Ma non c’è motivo per sperare in una Russia democratica e libera». Cita una frase del “Boris Godunov”, il poema di Pushkin ambientato nei primi del Seicento: “Il popolo continua a stare in silenzio”. «Questa frase descrive benissimo il rapporto tra potere e popolo».  Poi aggiunge con ironia: «Sebbene la tradizione di tenere manifestazioni di piazza esista ancora, è contrastata con successo da un’altra tradizione: portare tutti i manifestanti in un cellulare al commissariato di polizia. E ancora più lontano».

 

Un tema caro a Ulitskaya e di attualità è il rapporto fra identità e memoria. In Europa siamo abituati al fatto che le memorie dei luoghi (la Leopoli polacca o la Breslavia tedesca, rispettivamente oggi in Ucraina e in Polonia o la Trieste, a lungo porto austriaco e oggi italianissima) non suscitino rivendicazioni territoriali né conflitti. Si distingue fra storia e memoria, fra memoria e politica. E allora perché per Putin è così importante ribadire che Kiev è culla della Russia e che l’Ucraina è un’invenzione posticcia di Lenin? «Non so, penso che Kiev non sia così importante per il russo medio come lo è per il potere russo».

 

Continuiamo sulla scia della memoria. Le autorità hanno, in pratica, chiuso l’associazione Memorial che si occupava del ricordo delle vittime dei Gulag. Perché? Ulitskaya la pensa così: «La memoria è la qualità più essenziale che distingue una persona umana da un animale. Nessuna delle specie animali che esistono ha una storia o una cultura. E il potere stesso è solo un elemento della cultura, qualunque cosa pensi di sé. Tutti gli strumenti della memoria - archivi, reperti museali e monumenti d’arte - testimoniano l’unicità della specie homo sapiens. La memoria può essere distrutta, ma appare come i primi segni dei nostri antenati antropoidi scolpiti sulle rocce. E che ci siano pitecantropi nel mondo e che distruggono ogni traccia di attività intelligente, è noto da tempo». Insistiamo. Spesso si ha l’impressione che nella memoria russa sia difficile affrontare la questione del lutto. Si parla poco dell’assedio di Leningrado (un milione e 500 mila morti fra militari e civili) da parte dei nazisti. C’è poco spazio per la Shoah ( il “Libro nero”, la monumentale opera sullo sterminio degli ebrei, curata fra gli altri da Vassilij Grossman e Ilia Ehrenburg, era proibito dalla censura). Prevale la retorica vincente. «Il potere attuale ha operato una specie di revisione della storia, o meglio, ha rivisto e reinterpretato la narrazione storica. Il modello da seguire non è l’immagine di un “bel futuro”, ma quella di un “bellissimo passato”. Sia il nostro passato sia il futuro sono nelle mani di persone per le quali il sistema sovietico, con il suo disprezzo per gli interessi dell’individuo (con la formula staliniana,“dove si abbattono gli alberi volano le schegge”) resta l’ideale. E con questo approccio alla storia affrontare l’assedio di Leningrado o la Shoah è superfluo e inutile. Si preferisce parlare dell’impresa spaziale di Jurij Gagarin e non dei milioni di morti nel Gulag. E del resto: gli ideatori ed esecutori delle purghe staliniane non sono mai stati puniti mentre i loro eredi ideali adorano ancora la formula morta di “comunismo, il luminoso futuro dell’umanità”». Facciamo notare come nel discorso del potere russo sia presente la Chiesa ortodossa, con il suo primate Kirill, allineato al Cremlino. È possibile un’altra ortodossia, non legata all’idea dell’Impero? La risposta è secca: «Non c’è altra ortodossia. L’autorità ecclesiastica è una delle autorità più potenti del mondo. La Chiesa istituzionalizzata ha bisogno del potere nello stesso modo in cui il potere ha bisogno del sostegno della Chiesa».

 

E allora ci permettiamo un’incursione nella sfera non direttamente politica, in apparenza. Nel suo romanzo “Daniel Stein, traduttore”, Ulitskaya parla della doppia identità del protagonista. Siamo in Israele e c’è un prete cattolico (esisteva davvero, si chiamava Daniel Rufeisen) che rivendica il suo essere cristiano ed ebreo allo stesso tempo. È bene avere una doppia identità? È una ricchezza, per la persona e per il mondo? Risposta: «È difficile toccare una questione così cruciale nello spazio di un’intervista. Comunque, il romanzo è un esempio di cosa sia la doppia identità. Il cristianesimo, per bocca di uno dei suoi maestri, dichiarò: non c’è né ebreo né greco. Essere cristiano significava, nella comprensione del protagonista cui mi sono ispirata, elevarsi al di sopra delle dimensioni storiche contingenti, assimilare le grandi idee dell’universalismo, che lui leggeva nei comandamenti della Torah. Ma questo è il grande segreto dell’apprendimento: lo stesso testo può essere letto e compreso in modi diversi. Comprendere e interpretare i testi è il compito principale della scienza della filosofia. Qual è la conclusione? Leggiamo e pensiamo!». 

 

E allora, torniamo a cercare di capire la Russia. Abbiamo parlato della nonna di Ulitskaya e della moglie di Sinjavskij che presero in mano il destino delle famiglie. Si ha spesso l’impressione che la Russia sia un Paese di donne. Se sì, aiuta ad avere una speranza? «Non è un’impressione. I dati demografici lo confermano. Storicamente, c’è stata un’elevata mortalità maschile dovuta a tre cause: la guerra, il Gulag e l’alcolismo. Ma i governanti, con rare eccezioni, sono uomini. Il 21° secolo sta facendo degli aggiustamenti, più donne sono al potere e mi sembra che ci si debbano aspettare cose buone da questo cambiamento: meno guerre e più asili nido». Ma è possibile una Russia non imperiale? «Non vedo, per ora, alcun motivo per l’esistenza di quello che lei chiama una “Russia non imperiale”».