Cultura in prigione
Armando Punzo: «Il carcere è un luogo tra i più terribili. Continuo a indagarlo con il teatro»
Negli anni Ottanta ha dato vita alla più incredibile esperienza del teatro italiano: la Compagnia della Fortezza. Ora, mentre il carcere di Volterra accoglie il teatro stabile, il fondatore vara un nuovo spettacolo
Me le ricordo bene le prime volte in cui si entrava nel carcere di massima sicurezza di Volterra. I documenti, i controlli, le sbarre, i metal detector, le lunghe attese allo spaccio bar o nei corridoi. Ci voleva tempo per arrivare nel cortile della rocca medicea del piccolo centro toscano. Eravamo emozionati e spaventati, noi spettatori chiamati ad assistere agli spettacoli della Compagnia della Fortezza, fondata e guidata da Armando Punzo.
Dagli anni Ottanta – il 1988 è l’anno di fondazione del gruppo di teatro composto da detenuti attori – le mura spesse del carcere erano testimoni di una delle esperienze più incredibili della storia del teatro italiano. E noi spettatori di professione non potevamo non dare conto di tanta emozione: a leggere le cronache di quelle prime aperture, i critici abbondano di un “impressionismo” emotivo difficile da domare. Sappiamo bene cosa sono le carceri italiane: l’impatto era talmente forte che superava ogni lucida analisi critica. Ma il regista ci ha guidati, anno dopo anno, ogni luglio, a lavori sempre più complessi, raffinati, profondi. Creando una poetica tutta sua, intrecciata indissolubilmente alle presenze – ai corpi, alle voci, alle storie – dei detenuti-attori.
Ora, mentre il carcere si apre per “Naturae-La valle della permanenza” (questo il titolo dello spettacolo 2022) e per un progetto che coinvolge anche comuni limitrofi, Punzo rivendica la potenza dell’Utopia.
Se Michelangelo Pistoletto diceva che «gli artisti realizzano le utopie, altrimenti non sono», Armando Punzo è l’uomo dell’utopia incarnata. Perché la sua ricerca – personale e collettiva – è davvero un costante richiamo alla meraviglia di un sogno impossibile che diventa reale.
«Il desiderio di vedere un mondo e un Uomo che si possano trasformare. Il cambiamento non può essere solo una speranza differita nel tempo, un paradiso da raggiungere. Occorre agire quotidianamente per ottenere dei cambiamenti. E il mio lavoro lo testimonia. Utopia è una parola che ha avuto un declino terribile, ha assunto un’accezione quasi negativa. “Utopista” è un’offesa: indica qualcuno fuori dal mondo, che non ha capito che è meglio essere pragmatici, realisti. Insomma, un inconcludente sognatore. Invece, ho sempre cercato, e in particolare negli ultimi otto anni, di difendere l’Utopia. Ricordo bene cosa era il carcere quando siamo arrivati, quando è arrivato il teatro, quando è arrivata un’altra possibilità per l’essere umano. So come questo luogo è cambiato, quanto ancora si trasforma, quanto le persone si trasformano. E non è un aspetto che tocca solo i detenuti. Di solito, la trasformazione viene veicolata e banalizzata nel concetto di riabilitazione o di rieducazione. No: la prigione è un luogo della realtà tra i più terribili, concretissimo, monolitico, claustrofobico. Ma quando si incontra con un punto di vista diverso, non riesce più a rimanere tale, è obbligato a trasformarsi».
In effetti, la prospettiva di questo viaggio artistico e certamente politico è affascinante. Di solito, si sa, è il contesto a determinare il testo. L’ambiente influenza quanto vi accade – e non potrebbe essere altrimenti. Raccontava Susan Sontag che, quando andò a fare “Aspettando Godot” nella Sarajevo assediata, il testo “assurdo” di Beckett diventava quasi neorealismo: non c’era da mangiare, si dormiva all’aria aperta nel freddo e Godot, come la Nato, non arrivava mai.
A Volterra, però, le cose sono andate diversamente. L’azione del teatro ha fatto sì che il “testo” – ossia la pratica scenica – sia riuscito a modificare il contesto. Adesso si sta lavorando per la costruzione di un vero e proprio teatro dentro il carcere: «Sì, un Teatro stabile in carcere», dice Punzo: «Ne ho parlato la prima volta 22 anni fa. Ora ci stiamo riuscendo, i lavori inizieranno». Insomma, questo progetto nato sul finire del secolo scorso sta trovando una rinnovata vitalità. Certo non è mutato l’ardore iniziale: la spinta, oscura eppure creativa, di un giovane regista che, dopo esperienze importanti (come con Jerzy Grotowski) arrivava nel carcere per capire, studiare, mettersi alla prova.
«Mi sono reso conto che non è stata una scelta occasionale né superficiale. Non volevo fare qualcosa di “strano” per poi tornare nel teatro mainstream. Ho rifiutato tante proposte. Ho cercato invece un lavoro in profondità. E continuo a indagare questo luogo: luogo ordinario, ossia l’edificio, il carcere, con le sue contraddizioni e luogo che è “l’attore”, l’Uomo».
Già, l’essere umano. Quando noi spettatori ci perdevamo nel labirinto costruito per “Orlando Furioso”, quando ci incantavamo per un Pasolini spinto a un paradossale “elogio del disimpegno”, quando risuonavano le parole di Shakespeare, era – ed è – serrato il confronto tra individui chiamati senza reticenze a guardarsi negli occhi nella dimensione della detenzione. Chi sono quei reclusi-attori?
Oggi Punzo invita a superare il canone occidentale, a sganciarsi dalla meravigliosa descrizione dell’Umano creata da Cervantes e Shakespeare. Con il Bardo la Compagnia della Fortezza ha fatto i conti: oggi non basta più. «È intoccabile Shakespeare? È vero: il suo racconto dell’Uomo è enorme. Noi siamo anche ciò che lui ha straordinariamente scritto. Ma ne dobbiamo uscire. Dobbiamo fermare la claustrofobica “ruota della vita”. Non sono buddista, ma quel concetto è concretissimo e terribile. Pensare che non potremo mai uscire dalla “ruota della vita” mi angoscia. Eppure, molti artisti, di fatto, ci chiudono comunque nell’eterna ruota della vita. Oggi abbiamo continuamente notizie che confermano quanto siamo orribili come esseri umani e quanto non riusciamo mai ad affrancarci da questa natura terribile. Ma perché dobbiamo continuare a raschiare il guazzabuglio brutto che siamo e che sono, e invece non proviamo a interrogarci su un “poi”? Come ci allontaniamo dal noi stessi di sempre?».
Punzo parla di “liberato in vita” cui aspirare, piuttosto che il “liberato in morte”, salvato o meno da religioni o credenze in un paradiso-altrove. E il concetto di libertà – per chi lavora in un carcere – è ovviamente nodale. La questione, però, non è tanto né solo uscire dalle celle, quanto piuttosto provare ad andare oltre sé stessi. Sembra quasi di sentire Antonin Artaud, il visionario folle, quando parlava di “corpo senza organi”, capace di “danzare alla rovescia”, liberato davvero dalla schiavitù dell’anatomia.
Risuona in Armando Punzo: «Bruciare in scena. Morire a sé stessi: dobbiamo imparare a far morire la parte più ordinaria di noi, per liberare la creatività, il sé potenziale straordinario sommerso dalla quotidianità. La “Conferenza degli uccelli” di Farid al-Din Attar è il racconto di un viaggio cui mi piace accostare il nostro. L’upupa invita al volo: ma gli uccelli accampano pretesti per non muoversi. Ecco, noi stessi siamo i pretesti per non cambiare. Dobbiamo provare ad andare verso un oltre, per vivere l’esperienza della meraviglia, per coltivarla poi, dopo il teatro». Negli ultimi anni, dunque, la Compagnia e Punzo hanno abbracciato questo percorso complesso e difficile. La svolta c’è stata con l’incontro con l’universo di Borges, che ha portato ad uno spettacolo di folgorante bellezza, “Beatitudo”. Ma anche il poeta argentino non è stato sufficiente. Di nuovo punto e a capo. La ricerca non si è fermata.
Adesso arriva “Naturae”: «Ci siamo chiesti, senza pietà, se eravamo capaci di fare quel che sognavamo e che avremmo voluto e dovuto fare. Sono in grado, nella mia vita, di allontanarmi da me stesso, di mettermi in crisi, di pormi domande e mandare tutto all’aria? Borges ci ha aiutato, ha indicato personaggi diversi: di “Beatitudo” siamo contenti, la scena è bellissima, con un lago creato nel cortile del carcere. Ma i dubbi non passavano». Ecco allora le indagini sulle “nature” dell’Essere Umano: nature sommerse, che cercano di uscire e cui noi, con mille scuse, non diamo spazio.
«Cercare l’armonia», dice Punzo, «è faticosissimo. Abbiamo le nostre abitudini, le soluzioni comode, e invece dobbiamo allontanarcene. Sembra, paradossalmente, che stiamo vivendo la migliore esperienza di vita possibile. E non parlo delle guerre, delle catastrofi, delle crisi. È assurdo, no? Invece quel che vorrei è passare da homo sapiens a homo felix».
La cosa strana, sorprendente, è che ci stiano provando in un carcere di massima sicurezza. E magari ci riescono.