Drammaturgo coraggioso e ironico, ha lasciato Teheran per sfuggire alla censura. E il suo “White Rabbit Red Rabbit” gira ancora per il mondo

Ero a Teheran nel 2011 per il festival teatrale Fadjr: un giovane, Nassim Soleimanpour, aveva il compito di curare la giuria internazionale di cui facevo parte. La città era scossa da tensioni, il clima era teso. E lui, con qualche intraprendenza, ci invita a vedere un suo spettacolo, fuori programma, quasi clandestino, sfuggendo ai sistematici controlli dell’organizzazione. Era “White Rabbit Red Rabbit”: capimmo subito che si trattava di qualcosa di speciale. Da allora, quel testo anomalo, curioso, drammatico, è stato presentato centinaia di volte, in quasi venti lingue diverse da attori come Whoopi Goldberg, F. Murray Abraham, Ken Loach, Nathan Lane. E in Italia, prodotto dalla agenzia 369gradi, da attori e attrici come Antonio Catania, Daria Deflorian, Vinicio Marchioni, Alessandro Benvenuti.

 

Insomma, un caso mondiale. Ma Nassim, all’epoca, non poteva lasciare il Paese. Ci consegnò il copione dicendo di farne quel che ne volevamo e potevamo.

 

Lo ritrovo a Berlino, cittadino tedesco, fresco di altri successi. È allegro, ironico come lo ricordavo. Ci sediamo in un bar davanti alla Volskbhüne e chiacchieriamo. Prima di tutto di Salman Rushdie, notizia troppo grave per passare sotto silenzio. «Quel che è accaduto è un disastro, non bisogna essere brillanti per commentare: qualcuno ha scritto un libro, e qualcun altro lo ha attaccato con un coltello», scuote la testa Soleimanpour: «Che aggiungere? È un assoluto disastro. Non so cosa abbiano pensato in Iran: la mia sensazione è che non ci siano coinvolgimenti diretti, soprattutto in questo periodo di negoziati complicati per il regime. Con Rushdie abbiamo raggiunto l’apice di qualcosa che, però, è esistito sempre e ovunque: “Non sono d’accordo con te, ti elimino”. Meglio provare a riderci su: dobbiamo avvisare gli artisti che la realtà è dura, e ci tocca sopravvivere!». 

 

L’approccio di Nassim è sempre ironico: scherza anche sui problemi per ottenere il passaporto. «Mi era stato ritirato perché avevo rifiutato di fare il servizio militare. È parte di quel che racconto in “White Rabbit”. Dopo anni, ho rifatto le visite mediche e si è scoperto che sono quasi cieco da un occhio! Risolto il problema. Ma restava quello del visto: servivano inviti ufficiali. Il mio agente, Wolfgang Hoffmann, è di Berlino: si è preso la responsabilità, così in pochi mesi abbiamo lasciato l’Iran».

 

“White Rabbit” è una dolorosa testimonianza della impossibilità ad essere presenti, un monologo per un interprete diverso sera dopo sera, che scopre il testo all’ultimo momento e instaura così un “dialogo” con l’Autore assente. Non si può svelare molto di più, il gioco a incastro deve restare una sorpresa. Lo spettacolo vanta allestimenti in tutto il mondo, a legger l’elenco si rimane sbalorditi, e continua a girare: nelle prossime settimane è in scena a Nashville, al Verge Theatre; al Proarts Playhouse a Maui, nelle Hawaii; a Claremore in Oklahoma; alla TeatrerÌa di Mexico City (dove ha raggiunto le 100 repliche) e in Cina, all’Inside-out Theatre di Pechino.

 

E il meccanismo perfetto, per nulla scontato, si è moltiplicato nei lavori successivi, come “Nassim”, prodotto dal Bush Theatre di Londra: «Non ho mai potuto fare i miei spettacoli in Iran, in lingua farsi. Per “Nassim”, muovendoci da un Paese all’altro, incontro diversi attori e attrici. Nella prima parte sono nascosto, dialogo con gli interpreti locali, nella loro lingua, e insegno loro il farsi. Per l’Italia, al Festival Inteatro nel 2018, c’erano Neri Marcorè, Marco Baliani, Lella Costa, Arturo Cirillo e Lucia Mascino. Bravissime e bravissimi. La cosa bella è che, alla fine, si capisce che faccio tutto ciò per mia madre, che non ha mai potuto vedere i miei spettacoli: la chiamiamo in diretta, e parliamo farsi. È l’unico modo per recitare nella mia lingua».

 

Ho ricordi meravigliosi dell’Iran e della sua attenzione per il teatro. Spettacoli sempre all’insegna del tutto esaurito, pubblico attento e curioso. Certo non mancano le contraddizioni, a partire dalla occhiuta censura: però, essendo il Paese sciita, è previsto il concetto di “rappresentazione” (mentre è impossibile per i sunniti “rappresentare” il divino) tanto da poter vantare una straordinaria forma tradizionale di sacra rappresentazione, il Tazieh, che narra l’assedio di Karbala e l’eccidio dell’Imam Hussein e della sua famiglia nel 680 d.C. Oggi, poi, non sono pochi gli artisti iraniani conosciuti e amati ovunque: al di là dell’ampia scuola cinematografica, per il teatro basti citare Amir Reza Koohestani. «C’è tanta passione, ci sono talenti e una nuova generazione di giovani oggi è alla guida delle istituzioni teatrali», dice Soleimanpour: «Ma il teatro ha bisogno di piattaforme, sussidi, fondi per una buona organizzazione. Quando però il governo è conservatore, tutta la cultura ne soffre».

 

Il primo compromesso è la libertà di espressione, fare i conti con la censura. In Iran sanno bene come “aggirare” le norme, come far arrivare il messaggio attraverso metafore taglienti. Soleimanpour ha una sua posizione: «Non voglio cedere a compromessi. Sono sempre stato “la pecora nera” e faccio di testa mia. Poi, il gioco è cambiato: la scena internazionale mi ha accettato, e non voglio lamentarmi per il teatro iraniano. Penso di aver ottenuto qualcosa di concreto in questi anni, però nessuno dall’Iran mi intervista, nessun artista iraniano mi ha chiamato, anche solo per un caffè. Non so perché abbiano paura. Sono un tipo socievole, non credo di incutere terrore! Magari mi ameranno quando sarò vecchio o postumo». A chiedergli se il suo è un teatro politico, lui sorride e aggira la questione: la politica è come un vento che invade tutto. Anche se il suo approccio non è direttamente politico, raccontare di un giovane che non può viaggiare, di una madre che non può vedere il lavoro del proprio figlio, non è politica? Il teatro può unirci, ridurre le distanze, farci stare vicini. Su Netflix vediamo storie molto ben fatte, perché dovremmo andare a teatro? Eppure continuiamo a sceglierlo per vivere, per ridere insieme».

 

Radicalmente iraniano per essere tedesco, e ormai troppo tedesco per essere iraniano, vive come un cittadino del mondo del teatro: «Non voglio essere il “povero iraniano fuggito e immigrato”. Mi piace passeggiare con il mio cane, bere un caffè, chiacchierare. Andare a teatro è come uscire insieme, scambiare i punti di vista, tu mi insegni qualcosa e io ti insegno qualcosa. Tutto qua: non ci sono “poveri iraniani” da accogliere, non c’è il mercato di immigrazione». Finiamo il caffè parlando di matrimoni, di figli, di calcio, di brutti spettacoli. E a chiedergli chi siano i suoi maestri, Nassim demistifica: «I miei colleghi, i teatranti che conosco. Puoi essere tu, il mio regista italiano Omar Elerian, il collettivo Gob Squad, il drammaturgo Chris Torpe a Londra o il fantastico Tim Crouch. Ma il mio maggior maestro è il mio cane, Eco: a lui importa mangiare, dormire, giocare, uscire per pisciare, riprodursi. Non gli interessano né il successo né i soldi». Piccole conquiste che fanno la libertà.