L’amore per “L’amica geniale”. E per Pasolini, Levi, Svevo. Lo scrittore americano racconta il suo rapporto con la letteratura italiana. E prende un impegno: “Quest’anno leggerò Manzoni”

Sono uno scrittore realista, amo descrivere la complessità dei miei personaggi, e mi identifico con loro». È sincero e appassionato Jonathan Franzen quando parla del suo mestiere e dei suoi capolavori: “Le correzioni” o il suo ultimo romanzo “Crossroads”. In questa intervista esclusiva il grande scrittore americano ci confida il suo rapporto con la letteratura italiana. Le sue perplessità sul rapporto tra il romanzo e il cinema. E la sua convinzione che l’era-Trump sia al capolinea. «Da tempo dico di non dar retta a quel che urlano su twitter e i social media, per capire dove sta andando la realtà». Partiamo da qui.

Le ultime elezioni Midterm hanno mostrato che gli americani ci tengono alla democrazia e ai diritti civili, o sbaglio?
«Credo che la maggior parte degli americani desideri soprattutto stabilità. Oggi la gente aspira ad aver una politica più umana e civile, più gentile, senza quella massa di volgarità e violenza che ci assale non appena apriamo i social e leggiamo commenti infuocati e di odio».

Se Trump dovesse ricandidarsi, quindi, crede che riperderà le elezioni?
«Esatto. Se Trump ha perso parte del suo carisma è perché la gente non ne può più di estremismo e fake news. Dopo l’assalto alla White House, la gente ha reagito dicendo che era troppo. Non credo che in questo ci sia la difesa strenua degli ideali della democrazia, ma il fatto che alla gente i matti al potere non piacciono. Politici come Marjorie Taylor Green sono esaltati, e alla gente gli eccessi non piacciono».

I sovranisti però continuano a far leva su vittimismo e demagogia.
«Lo so e ricordo, tempo fa, di aver trascorso dei giorni in Florida con un tizio simpatico. Era la guida in una gita sulla Dry Tortuga, un’isola all’ovest di Key West. Siamo stati benissimo insieme sino a che,ha iniziato a sputare odio contro i migranti. Ero scioccato nel vedere tanto razzismo in un uomo così simpatico. Lui li odiava per quelli che considerava privilegi che gli stavamo accordando e di cui i suoi americanissimi avi non avevano goduto!».

Mi fa pensare a un romanzo che meglio di ogni altro ha raccontato i dolori della presunta vittima e le gioie della vendetta: “Il Conte di Montecristo”. Lo ha mai letto?
«Certo, avevo 15 anni e ho passato una settimana meravigliosa: pensavo che fosse il libro più bello mai letto. Un libro-miniera per tanti drammi girati a Hollywood. Una persona viene maltrattata, ingiustamente, e brama vendetta. Un desiderio che risale ai tragici greci ed è arcaico quanto umano».

“Crossroads” è un racconto degli anni 70. Una delle voci più poetiche allora è stata quella di Pier Paolo Pasolini. Lo ha letto?
«Gli anni 70 in Italia sono stati pura follia! Il terrorismo e un ampio strato di intellettuali disposti a comprenderne le ragioni. L’idea del capitalismo come sfruttamento del Terzo Mondo e l’estremismo come unica possibilità di combatterlo. Sì, allora scrittori impegnati come Pasolini si sentivano parte di questa mobilitazione. Ma la deludo se dico che questo trend non mi ha mai ispirato, perché non credo che la politica renda l’arte più interessante?».

Il mestiere dello scrittore è apolitico?
«No, ma include il dono dell’incertezza, di una visione complessa della realtà, e sia complessità che ambivalenza sono il nemico numero uno della politica. Se in politica pensi che il tuo rivale abbia buoni motivi per dire e fare ciò che fa, sei spacciato. Questo è ciò che lo scrittore tenta di fare in ogni pagina».

Lei è tra gli americani conquistati da “L’amica geniale” di Elena Ferrante.
«Adoro i romanzi che ti fanno entrare molto lentamente in un mondo carico di tensioni. E quelle due bambine così diverse nei quartieri poveri di Napoli, il contrasto fra le loro intelligenze e la catastrofe politica e morale in cui crescono, beh, in questa storia c’è una tensione che mi ha riportato a “Il rosso e il nero“ di Stendhal».

Stendhal, non le pare di esagerare?
«Stendhal frena continuamente il racconto, quando Julian ad esempio diventa precettore. E la tensione che monta pagina per pagina l’ho risentita nell’ “Amica geniale”. Ce ne saranno tanti di romanzi che raccontano di amicizie competitive, ma non ho mai letto un romanzo migliore sull’amicizia fra due bambine».

Dall’“Amica geniale” è stata tratta una serie. Può immaginare un film ispirato a “Le Correzioni” o “Crossroads”?
«Non credo che i miei romanzi possano diventare buoni film, ci sono troppi punti di vista. Le mie storie sono complicate, il rapporto delle figure tra loro e col passato complesso. Comunque devo rivelarle che, proprio prima di quest’intervista, stavo lavorando al pilot-film per una serie in otto puntate su “The Corrections”. Non so come andrà e non saprei se la mia letteratura è “matura” per il cinema».

Uno dei capolavori di Stanley Kubrick, “Dr. Strangelove”, rischia di trasformarsi in realtà, con Putin che minaccia l’ecatombe. Teme un inverno nucleare?
«Sì! Ci penso ogni giorno e rimando sul tema a “Command & Control” di Eric Schlosser sulla sicurezza degli armamenti nucleari. Di recente ero a un party e un tizio ha iniziato a discettare sul Covid, che era una congiura del governo. Per oltre 20 minuti mi ha riempito con le sue teorie sul virus. A un certo punto gli ho detto che erano idee interessanti, se non fosse per un piccolo problema: che noi uomini non siamo così intelligenti come le cospirazioni presuppongono. Come fai a coordinare una congiura in un Paese enorme come gli Usa, e a tenerla segreta? È questo che più mi assilla nelle armi nucleari: noi uomini facciamo errori e ci affidiamo alla tecnica che, a sua volta, così perfetta non è. Mentre gli scienziati si nascondono dietro il mantello di una razionalità perfetta».

La letteratura ne ha narrate tante di catastrofi. In versione russa con Vladimir Sorokin. In versione americana con Cormac McCarthy. Nei suoi romanzi non c’è traccia di distopie simili, come mai?
«Quando scrivi un romanzo devi decidere: realizzare un’idea o sviluppare i protagonisti della storia. Le distopie sono macchine narrative delicate. Se le dovessi scrivere non avrei più posto per ciò che più amo, la complessità dei personaggi. Sono uno scrittore realistico, e la mia comprensione della psiche poggia su situazioni concrete».

Da Omero a Tolstoj a Norman Mailer, la letteratura ha sempre narrato guerre...
«Dalle guerre sono nati capolavori. Hemingway, Kraus, il grandioso “Vita e destino” di Vasilij Grossman su Stalingrado. Penso ai romanzi su Auschwitz, il miglior libro è quello di Primo Levi. Auschwitz resta “un buco nero” per la letteratura. Lucidi testimoni come lui hanno illuminato quel sistema di morte, dal quale non trapela luce».

Quali altri scrittori italiani conosce?
«La conoscenza della vostra letteratura è abbastanza idiosincratica e tristemente lacunosa. Ho letto opere di Dante e Boccaccio e, naturalmente, di Machiavelli».

Tra i più moderni?
«“La coscienza di Zeno” di Svevo parla ai miei gusti e mi ha colpito profondamente. Adoro “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, mi lascia a bocca aperta la sua perfezione. “Cristo si è fermato a Eboli” mi ha accompagnato quando viaggiavo da giovane per l’Italia più contadina. Quest’anno mi dedicherò a “I Promessi Sposi”».