intervista
Rocco Papaleo: «Sono umile e me ne vanto»
Talento, empatia, altruismo. La famiglia in Lucania. La passione per la chitarra. L’attore, ora alla regia del suo ultimo film, “Stonato”, con Giorgia nel cast, si racconta a tutto campo. “Adoro mio figlio. E non ho più paura della morte”
«Da ragazzino non sapevo fare niente», dice il regista, l’attore, il musicista, il comico, l’artista Rocco Papaleo. Un artista che ha scommesso con il caso, che ha vissuto sin da giovanissimo inseguendo una meta sfocata, fuggevole. «Ho portato avanti tante cose per tanto tempo senza sapere dove mi avrebbero condotto». Un uomo che ha percorso la sua strada scoprendo le proprie capacità passo dopo passo. Che ha dimostrato, con la tenacia di chi non può fare altro, di avere un dono.
Non è stato facile farlo parlare del suo talento, modesto come lo sono spesso gli uomini di talento, ma ha dovuto accettare una regola: non essere umile per il tempo dell’intervista.
Questa umiltà è per lei una difesa?
«Direi che tendo a mettere le mani avanti. Potrebbe sembrare una strategia, in effetti… è che punto più a sorprendere che a deludere (ride). Però sto al gioco, mi sembra un buon esercizio, ogni tanto bisogna farsi coraggio. Sarò gentile con me stesso come faccio nel privato, dove ripongo la coscienza delle mie qualità. Anche se, diciamolo, la mia umiltà ha una forte componente di insicurezza. Ho una reale passione per il talento altrui».
Attenzione, niente umiltà!
«Ecco, per esempio sono bravo a riconoscere le qualità artistiche negli altri e sono privo di invidia. Quindi direi che ho un atteggiamento positivo nei confronti della bellezza altrui. E sono una persona empatica, a detta anche di chi mi sta vicino. Poi, certo, quando i fan mi dicono che sono il numero uno mi viene da ridere: mica sono un tennista».
Le do una mano… lei ha tante abilità. Sa suonare, scrivere canzoni, recitare, dirige film. Non crede che basti tutto questo per ritenersi fuori dal comune?
«Sono tante cose apparentemente diverse che appartengono tutte al mondo dell’intrattenimento. Sono fuori dal comune? Non lo so. Sono stato fortunato. Sono cresciuto in una cittadina di provincia, a Lauria, in Basilicata, con due genitori dall’animo semplice. Mi sono ritrovato a studiare recitazione perché una carissima amica, Vittoria, mi ha iscritto a un corso… credeva che la mia simpatia fosse commerciabile. E così ho cominciato a mettermi alla prova. A sfruttare ciò che già sapevo e a osservare chi ne sapeva di più. Suonicchiavo la chitarra, mi piaceva scrivere canzoni, facevo ridere. Poi, piano piano, gli incontri con artisti di alto livello mi hanno fatto crescere».
Suo padre era un impiegato, sua madre una casalinga. Da dove le è arrivata la passione per la musica, tanto da farle venir voglia di imparare uno strumento?
«La musica ha una forza inarrestabile. Arriva ovunque. In casa mia si sentiva sempre la radio; era la mia compagnia. D’inverno quando il buio arrivava si chiudevano le porte e io, piccolo e senza fratelli, non avevo altro che lei, la canzonetta. Con la mia mamma ascoltavamo Sanremo, Canzonissima. Programmi che mi hanno formato, che mi hanno consolato. La chitarra ho imparato a suonarla da solo e da solo ho cominciato a scrivere canzoni. Ma imitavo ciò che sentivo, ero limitato. Poi a diciannove anni, quando mi sono trasferito a Roma, ho avuto modo di incontrare tante persone interessanti che hanno ampliato il mio mondo musicale. Ricordo che quando ascoltai le canzoni di Sergio Caputo mi dissi: cavolo, uguali alle mie! Erano più belle, oggi lo ammetto, ma che qualcosa che anche io credevo di saper fare avesse successo fu una spinta incredibile. E così decisi di affinare il mio… posso dirlo?».
Lo dica.
«Talento! (ride)».
Ho letto molte sue interviste e ho notato che non parla quasi mai del suo papà.
«Vero. Mio padre lavorava all’ufficio delle imposte dirette. Era un uomo timido, silenzioso, schivo. È morto che avevo trent’anni… Ci siamo parlati in maniera molto profonda solo alla fine. Era un uomo eccezionale, ma non abbiamo mai avuto un rapporto di confidenza. Nonostante questo, è riuscito a trasmettermi, con i fatti probabilmente, il valore dell’onestà. Un’onestà che mi ritrovo addosso».
Sarebbe fiero di lei?
«Sì. Sia lui che mia madre mi hanno sempre dato una mano. Quando ho smesso l’Università hanno continuato a sostenermi economicamente. Hanno creduto in me. Sono anche venuti a vedermi a Roma, in un teatrino off. Fu quella la volta che si resero conto che stavo facendo le cose seriamente. Era un bel lavoro, quello spettacolo, non come le recite di paese a cui erano abituati. Avrei voluto che mio padre continuasse a seguire la mia vita, ma lo fa la mia mamma, che era molto legata a lui… quindi penso che se mi vede lei, allora mi vede anche lui».
Parliamo adesso del suo cinema. Lei dice sempre di essersi improvvisato un po’ in tutto. Ogni cosa sembra nata dalla fortuna o da un incontro; ma dirigere un film non prevede il dilettantismo né tanto meno il semplice estro.
«Anche lì, ho imparato osservando. Sono stato tanto tempo sui set, ho visto come si lavora. Amo il cinema, ho fatto scorpacciate di film. E mi sono circondato di ottimi professionisti che mi hanno protetto, che hanno reso tutto possibile. Io mi sono dedicato alla costruzione delle scene, come fossi in teatro. Ho, appunto, usato la mia esperienza».
C’è un film in particolare a cui si è ispirato nella ricerca del suo stile?
«“The Blues Brothers”, per esempio. Un film strepitoso, pieno della musica che amo. E anche “Little Miss Sunshine”, un film che mette in scena il tono che preferisco: malinconico, divertente e commovente».
Un po’ com’è lei.
«Giusto… è la mia natura».
E da dove viene questa malinconia?
«Sarebbe bello scoprirlo. Posso formulare ipotesi grossolane. Forse viene dal fatto che sono figlio unico… e che sono terribilmente miope. Diciamo che ho dovuto lavorare molto con l’immaginazione. Probabilmente queste due cose mi hanno fatto sentire solo. Per carità, sono circondato da affetti, ma la solitudine che si prova nella vita ha poco a che fare con gli altri».
Questa sua inquietudine l’ha sempre accompagnata?
«Alti e bassi. Ho passato momenti in cui mi pareva che il mio mestiere fosse vuoto. Poi è sempre accaduto qualcosa che mi ha riportato il sorriso. Come per esempio lavorare al mio film “Basilicata coast to coast”, o all’ultimo film: “Stonato”, dove ho lavorato con Giorgia, persona dolcissima e davvero piena di talento, lei. Una cosa importante: ho un figlio che mi riempie la vita. Ecco, l’amore che provo per lui mi fa sentire meno solo».
Ha paura della morte?
«Non più. Ho vissuto abbastanza, con grande soddisfazione. Certo, ancora voglio fare e fare. Ma che dire, quando la morte arriverà non mi troverà né impreparato né incompiuto».