Diritti civili, femminismo, empowerment delle minoranze. Grandi libri e grandissime storie. Le sue battaglie e il suo amore per la vita. Durato sino alla morte

Per i lettori de L’Espresso Michela Murgia è e sarà sempre “L’Antitaliana”. L’abbiamo seguita per mesi passare da questo a quell’argomento con la stessa grazia appuntita, che parlasse di una qualsiasi malefatta del governo o della sua passione per i serial televisivi coreani. Non era una sfida facile prendere il testimone da Roberto Saviano che “era uscito dal gruppo”, e che a sua volta lo aveva ripreso direttamente dalla famosissima rubrica di Giorgio Bocca. Murgia però è stata assolutamente all’altezza, – oggi ci sembra ovvio, ma non lo era nel gennaio del 2021 – ed è stato davvero un peccato perderla, nell’estate dello scorso anno, quando già si erano fatte sentire le prime avvisaglie della malattia che l’ha portata via e decise di interrompere la collaborazione.

La polemica
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Prima di diventare l’antitaliana però Murgia era già nota: alle spalle della polemista c’era una grande scrittrice. E questo è purtroppo il momento per prendere o riprendere in mano i suoi libri. Il grande pubblico l’ha scoperta con “L’accabadora” (Einaudi, come quasi tutti i suoi libri), romanzo dark che dava vita nella Sardegna contemporanea a un personaggio del folklore locale, la donna che dava il colpo di grazia a chi stentava a morire.

Intervista
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Ma se quello è un grande romanzo, ci voleva davvero una penna geniale per trasformare in una parodia epica la vita nei call-center, come ha fatto nel romanzo autobiografico “Il mondo deve sapere”, suo debutto nel 2006 per le edizioni Isbn. O a raccontare una storia d’amore sghemba come quella di “Chirù”. O i racconti indomiti di “Tre ciotole”, ispirati dal suo rapporto con la sua malattia che non è stata una battaglia, e Murgia ci ha tenuto molto a sottolinearlo: è stato un confronto alla pari.

Letteratura
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Tra i suoi saggi che resteranno negli anni a venire c’è “Istruzioni per diventare fascisti”, uno dei più direttamente politici in una carriera che la politica l’ha sempre fatta guardando alle cose e non alle ideologie: l’eutanasia dell’Accabadora e gli altri diritti civili, certo, ma soprattutto l’identità di genere, il femminismo, l’empowerment delle minoranze.

Il mio preferito resta “Ave Mary”, requisitoria divertita ma mai benevola sul ruolo delle donne in una società patriarciala fondata sulla religione cattolica: ex attivista dell’Azione Cattolica, dava prova di una fede solida ma senza sconti, della fede dei grandi eretici, quelli che non hanno paura di scontrarsi non dico con il Papa ma nemmeno con il Creatore: il Dio di Murgia esisteva, per questo lei poteva prenderlo a sberle.

Era una persona forte, vivace, combattiva, aveva un’energia che lasciava un segno in chiunque la incrociasse anche per pochi minuti, come è successo a me. Avevo scritto per l’Espresso una recensione dell’”Accabadora”, e lei mi disse che ero stata l’unica, fino a quel momento, a rendermi conto che il vero punto centrale di quel libro non era la storia horror della vecchietta col mazzuolo, ma il suo rapporto affettuoso e tormentato con Maria, la sua “filla de anima”, nata da un’adozione “di fatto” che non era riconosciuta dalla legge. Il grumo della famiglia queer che tanto ha fatto parlare negli ultimi mesi era già nelle pagine di quel libro. Perché come allora, anche in questo momento l’accento Michela Murgia non lo mette sulla morte ma sulla vita, non su chi va via ma su chi rimane.