Cultura

Il cinema d'animazione di Simone Massi: «La mia ossessione è la resistenza contadina»

di Fabio Ferzetti   26 aprile 2024

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Una immagine da "Invelle", il primo lungometraggio di Simone Massi

Lavora a mano, appartato sulle colline marchigiane. Il suo primo lungo, “Invelle”, scorre sulle voci di Servillo, Timi, Lo Cascio. Ed è una piccola storia d'Italia dal basso

Per scoprire uno dei talenti più preziosi del nostro cinema d'animazione bisogna arrampicarsi a Pergola, sulle colline marchigiane, anzi nella sua frazione Pantana Serralta, dove Simone Massi si ostina a vivere e lavorare facendo tutto a mano, come sempre, con un pugno di collaboratori ”scelti per le qualità umane oltre che professionali: le persone per me vengono prima delle opere”. Gli appassionati che frequentano i tanti eventi disseminati per l'Italia lo conoscono da un pezzo, l'ultimo a rendergli omaggio è il Bolzano Film Festival, diretto da Vincenzo Bugno e da sempre attento alle minoranze di ogni tipo, che in aprile ha reso omaggio a Massi con una vera e propria personale. Gli altri hanno visto le sue immagini inconfondibili per anni nella sigla che precedeva i film in programma alla Mostra di Venezia

Mentre a fine estate, accompagnato forse da una mostra nella sua regione, arriverà finalmente in sala “Invelle”, scoperto a Venezia. Un titolo che in dialetto significa “da nessuna parte” e sembra riassumere il percorso di questo artista ostinatamente controcorrente. Che presenta così il suo film, 40.000 fotogrammi “graffiati” a mano per una piccola storia d'Italia dal basso in cui perderci e ritrovarci: “Nel pezzo di terra dove sono nato e cresciuto non c'è niente di importante da vedere e da ricordare, niente che possa essere considerato degno di finire sui libri. Una sorta di "Invelle", un non luogo da cui la Storia con la maiuscola ha preso e preteso tutto quello che voleva e poteva. In cambio abbiamo avuto le storie con la minuscola, quelle che o le tramandi a voce oppure si perdono.”

 

Simone Massi

 

Dalla Grande Guerra agli squallori del Ventennio, dal rapimento Moro alla rabbia di un bambino che si chiama Icaro ma ricorda l'autore, “Invelle” vola sulle immagini di Massi con le voci di Marco Baliani, Ascanio Celestini, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Giovanna Marini, Toni Servillo, Filippo Timi (ma c'è anche quella di Nuto Revelli). Sempre calato in quella dimensione lirica e materica, cosmica e insieme agreste, tipica di Massi. Che da bravo ex operaio, passato brevemente per la gavetta del cinema d'animazione “industriale”, rifiuta da sempre le scorciatoie del digitale (“sono nato in un'altra epoca, non mi appartiene”). Rivendicando il corpo a corpo quotidiano con la materia. Quella da cui estrarre le sue immagini, talvolta riprese dal vero o prese da filmati d'archivio, ma lavorate fino a renderle sue. E quella, più impalpabile, che alimenta la sua immaginazione.

 

“La mia ossessione è la resistenza della civiltà contadina, questo è chiaro. È il mio filone d'oro. Da 17 anni vivo a Pantana Serralta”, racconta Massi, “cinquanta persone quasi tutte anziane tra cui ormai prevalgono le donne perché gli uomini muoiono prima. Ma è da quando ho capito l'importanza delle mie radici, a vent'anni, che ho iniziato a parlare con la gente. Persone semplici, con cui parlo in dialetto, che hanno qualcosa da raccontare. Posso trascorrere giornate intere su una panchina con delle vecchiette ad ascoltare le loro storie. Senza necessariamente avere l'idea di usarle un giorno. L'essenziale è che mi entrino dentro”.

 

È anche da questi racconti che vengono le schegge di memorie partigiane presenti in “Invelle”, ma Massi minimizza. “Dei partigiani a casa mia si è sempre parlato. Anche se nessuno in famiglia ha fatto la Resistenza, mia nonna ospitava i partigiani in casa propria. Tra i locali l'unico famoso è forse Tino Fagioli, il gappista che portò la mappa della linea gotica al comando inglese, ad Arcevia. Ferito a un occhio, si appoggiava a una canna, così disse ai tedeschi disse: sono in convalescenza, devo camminare, e arrivò fin dagli inglesi”. Più ancora delle storie, però, per Massi contano le voci, il gesto, l'ascolto. “Contadini o partigiani, i racconti vengono fuori quasi da soli. Io non amo la retorica né ciò che è troppo esplicito. Spesso anzi lascio fuori campo le parti più drammatiche. Anche per le parole, vale più un accenno, o una riga della lettera di un condannato a morte, che il testo intero. L'essenziale è ritrovare un brandello di memoria. Se mi guardo intorno vedo tanti autori che raccontano il presente. Pochi hanno voglia di scavare, di capire cosa abbiamo alle spalle. Eppure per trovare autentici tesori basta usare il nostro dialetto, che ormai non parla più nessuno. Ecco: per me era importante anche rendere omaggio a questo dialetto abbandonato, denigrato dalle persone colte, fino a far vergognare chi lo parla” si accalora Massi, che lavora da anni a un monumentale “Abbecedario”, migliaia di parole del dialetto di Pergola “con tanto di etimologia e riferimenti letterari, per scoprire con emozione che quelle parole considerate rozze e ridicole erano usate anche da Dante, Boccaccio, Petrarca, Machiavelli...”.

 

È vero che anche se in Italia in un modo o nell'altro molti dialetti godono di grande vitalità, lingua e cultura marchigiane circolano ben poco. Eppure proprio le province più remote offrono chiavi preziose. “Tra i pochi fatti degni di nota, da queste parti, negli anni 50 ci fu lo sciopero dei minatori di Cabernardi. Quando la Montecatini chiuse gli impianti, scatenando un'ondata di migrazioni, i lavoratori si chiusero dentro per 40 giorni. L'Unità titolò “I sepolti vivi della miniera”. Vennero Giuseppe Di Vittorio e il giovane Gillo Pontecorvo che girò un documentario straordinario sullo sciopero, “Pane e zolfo”. Ma poi purtroppo, cedendo alle insistenti pressioni della Rai, doppiò tutti in romagnolo perché il marchigiano era considerato impresentabile!”.

 

È anche per questo che Massi, invitato in cinque continenti con i suoi corti, tiene duro e non si muove dalle sue colline affacciate sul mondo.